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martedì 29 novembre 2022

TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
"HEDDA. GABLER. COME UNA PISTOLA CARICA"
PRIMA REGIA DI LIV FERRACCHIATI

Ci dispiace informarvi che per un caso di positività tra le attrici e gli attori della Compagnia, le recite di HEDDA. GABLER. come una pistola carica sono annullate da stasera, 6 dicembre, a sabato 10 dicembre compreso.

Dall’1 al 22 dicembre 2022
Non una riscrittura, ma una nuova drammaturgia che si affianca all’originale per interrogarlo, per esploralo, per indagare il cortocircuito tra desiderio e regola, vocazione e dovere. HEDDA. GABLER. come una pistola carica, con scene da Hedda Gabler, è firmato da Liv Ferracchiati ed è la sua prima regia in una produzione del Piccolo, del quale dalla scorsa stagione è artista associato.

Lo spettacolo debutta in prima assoluta giovedì 1° dicembre e replica, al Teatro Studio Melato, fino al 22 dicembre. Intorno allo spettacolo, il calendario di incontri e approfondimenti di Oltre la Scena.

Quella che andrà in scena non è una regia di Hedda Gabler di Ibsen ma una sorta di scrittura scenica che si affianca al testo originale, ritradotto per l’occasione da Liv Ferracchiati insieme ad Andrea Meregalli. Non una regia quindi, ma nemmeno una riscrittura, piuttosto un affiancamento di un nuovo materiale che esplora l’originale. Dell’opera di Ibsen, il regista illumina in particolare, due nuclei di attenzione e attrazione. Il primo, la tensione tra la fascinazione per ciò che non rientra nella norma e l’ossequio alle convenzioni. Il secondo, la sregolatezza, incarnata dal personaggio di Ejlert Løvborg, e il tentativo di dominarla attraverso l’arte.

«Ma tutti – commenta Ferracchiati – soccombono alla vita e non li salva nemmeno l’opera visionaria. L’autore sembra chiedersi quali siano, se ve ne sono, le condizioni per la felicità umana. E questi individui di fine Ottocento, incapaci di incidere, ci somigliano, sembriamo proprio noi, incastrati all’interno di odierni e ipotetici salotti borghesi, raramente in grado di assumerci delle responsabilità».

In una scena interamente di cartone, creata da Giuseppe Stellato, i cui ambienti si avvicinano e si allontanano dal pubblico, assecondando la schizofrenia tra verità e artificio, tra licenze dell’auto-finzione e aderenza al canone drammaturgico – una dialettica che si riflette anche nel raffinato e sottile gioco di commistioni tra elementi d’epoca e contemporanei che Gianluca Sbicca ha immaginato per i costumi – si muovono le attrici e gli attori: accanto a Petra Valentini, nei panni di Hedda Gabler, e allo stesso Liv Ferracchiati, in quelli di Ejlert Løvborg, (in ordine alfabetico) Francesco Alberici (Jørgen Tesman), Giulia Mazzarino (Irene), Renata Palminiello (Signorina Tesman), Alice Spisa (Signora Elvsted), Antonio Zavatteri (Giudice Brack). Le luci sono firmate da Emiliano Austeri, il suono è di Giacomo Agnifili (spallarossa).

Il corpus teatrale ibseniano è ad un tempo vertice della drammaturgia borghese e (nella prospettiva critica dominante) origine della dissoluzione epica del dramma moderno. È dedicata proprio al personalissimo tentativo di decodifica dell’inafferrabile produzione dell’autore norvegese il primo spettacolo a cui dà vita Liv Ferracchiati in qualità di artista associato presso il Piccolo Teatro di Milano. In particolare, in quella sorta di epos unitario che formano i drammi del maestro di Oslo, la ricerca di Ferracchiati si apre a una libera esplorazione di Hedda Gabler. Il performer e regista coltiva coraggiosamente l’ambizione di coniugare in sintesi complessa la “poesia della scena” con una originale immersione nel testo, affrontato in stretto dialogo con il traduttore Andrea Meregalli e la dramaturg di scena Piera Mungiguerra. Suggestiva ibridazione di naturalismo e tragedia, Hedda Gabler nasconde sotto le parvenze borghesi una veemente mitologia terrigna, che la creazione di Ferracchiati intende consegnarci demistificando il feticcio del personaggio e portando avanti una riflessione sul mentirsi, sull’incapacità di accettare la propria vocazione. L’interesse per i futuri orizzonti della scrittura per la scena, così come per i giovani talenti teatrali, vive dunque un nuovo capitolo nella storia recente del Piccolo: tutto ciò nella convinzione che, affinché un classico possa continuare a dirci “quel che ha da dire”, è necessario anche sfidare il suo effetto “intimidatorio”, non avendo timore di scoprire inediti e audaci sentieri.
Claudio Longhi

Arte e identità, oltre le convenzioni
Conversazione con Liv Ferracchiati
(a cura di Eleonora Vasta)

Perché hai attribuito a Hedda. Gabler. il sottotitolo come una pistola carica?

Hedda Gabler gioca continuamente con le armi ed esplode dei colpi – nella mia versione anche più di quelli indicati da Ibsen nelle didascalie… – ma la vera pistola carica è lei stessa. Anche gli altri personaggi, Løvborg in particolare, nutrono grandi desideri che, per una serie di ragioni, non riescono a realizzare, rimanendo imbrigliati tra due polarità: azione e paralisi. Sono tante pistole cariche: è l’immagine da cui sono partito, per poi spingere il racconto in altre direzioni.

Infatti, come doppio di Hedda Gabler c’è una certa Irene, che viene dall’ultimo testo scritto da Ibsen: Quando noi morti ci destiamo, datato 1899. Irene, personaggio che Ibsen immagina a partire da un incontro reale della sua vita, Laura Kieler (che aveva ispirato anche Nora di Una casa di bambola), è in questo ultimo testo una modella che si offre alla contemplazione dello scultore Rubek, il quale, pur nutrendo una profonda, sublime attrazione per lei, non vive la potenziale passione affinché sia motore della sua più grande opera. Quando i due, dopo anni, si incontrano in alta montagna si confesseranno che, entrambi, “hanno mancato la vita”. Per me è stato uno spunto per riflettere su come l’Arte possa essere una forma per esperire anche le più violente passioni e conoscere i propri impulsi autodistruttivi in uno spazio controllato, gli stessi impulsi che nella vita di tutti i giorni non possiamo mostrare.

Allo stesso tempo, però, indagare la propria natura attraverso un’esperienza rielaborata dal filtro artistico può distrarre da quella che è la vita vera e concreta. Indubbiamente rimane aperta una domanda: quale sia, alla fine, la vita vera.

Hai chiesto ad Andrea Meregalli di realizzare, insieme a te, una nuova traduzione. Che lingua deve parlare la tua Hedda?

Le traduzioni di Hedda Gabler disponibili in commercio erano due. Una più recente, firmata da Roberto Alonge per BUR, è stata per me, che non leggo il norvegese, un aiuto insostituibile per avvicinarmi il più possibile alla lingua di Ibsen e poter così collaborare con Andrea Meregalli, il docente universitario con cui abbiamo realizzato la nostra nuova traduzione. Precedente a quella è la traduzione di Anita Rho per Einaudi, più poetica, ma a volte per quel che serviva a me, troppo letteraria, “alta”, rispetto alla lingua che avevo in mente, e perciò meno “dicibile” per gli attori, meno estemporanea. L’esigenza di tradurre Hedda Gabler ex novo insieme a un profondo conoscitore di Ibsen e della sua lingua nasceva dal mio desiderio di analizzare il testo, di comprenderlo profondamente e di coglierne le sfumature. Andrea ci forniva i brani da lui tradotti, che io rielaboravo per poi sottoporglieli nuovamente, sotto la supervisione di Piera Mungiguerra, la nostra dramaturg di scena. Hedda Gabler è un testo molto complesso e difficile da tradurre; a questa difficoltà si aggiungeva il fatto che intendevo metterlo in scena in relazione a una mia drammaturgia parallela che andava a sconfinare e ad ampliare rispetto ai suoi temi, dovevo insomma aiutarmi, attraverso l’originale, a ordire un nuovo racconto, un nuovo tracciato che avrebbe portato altrove.

Come lavori con gli attori e come hai lavorato con i protagonisti di Hedda. Gabler.?

Conduco un primo approccio conoscitivo del soggetto dello spettacolo e della sua materia testuale. Con gli attori affrontiamo una profonda analisi del testo, durante la quale cerco di capire quali siano le suggestioni che suscita in loro, le corde che smuove. Spesso la mia scelta degli interpreti è motivata da una sensazione di vicinanza dell’attore al personaggio, per qualche ragione, non per forza la più ovvia, perché mi interessa che le parole si accompagnino facilmente al corpo e alla voce di chi le pronuncerà in scena. Ma può anche accadere che una persona sia adatta a un determinato personaggio per contrasto. Faccio un esempio: Thea Elvstedt, interpretata da Alice Spisa, per Ibsen è una donna bionda, con una folta cascata di ricci. Alice ha capelli lisci e corvini e neppure caratterialmente è sulla stessa lunghezza d’onda del suo personaggio: nel corso delle prove, in alcune scene, ne ho colto la difficoltà, quasi una sorta di fastidio, per esempio quando Thea si pone come la salvatrice di Løvborg. In realtà, il suo è un personaggio coraggioso ed emancipato, simile, per certi versi, a un’idea di donna contemporanea. Ed è qui che l’innesto tra attrice e personaggio è risultato felice.

Durante le prove hai dedicato alcuni momenti all’improvvisazione, poi fissati nella drammaturgia. Che cosa significa?

Petra Valentini, che interpreta Hedda Gabler, ha sempre di chiarato di non aver nulla in comune con il suo personaggio, così freddo, calcolatore, stratega. Nel corso di una sessione di improvvisazione, è venuto alla luce un punto di contatto molto interessante tra lei e Hedda: Petra ha sottolineato la grande stima che nutre per il padre e quanto la forte personalità di lui abbia condizionato gli incontri e le relazioni della sua vita. Quest’unico punto di contatto è entrato prepotentemente nel testo, in una parte di drammaturgia che ho inserito, in cui Petra si libera di Hedda Gabler, dichiara di stare recitando un personaggio, fatta eccezione per quel solo elemento. Realtà e finzione, quindi, continuamente si alternano e si intrecciano. Quello stesso stralcio di testo è stato, in un secondo momento, tagliato, perché ho capito che Hedda doveva rimanere solo Hedda fino alla fine, ma quel materiale lavora lo stesso sottotraccia.

A partire dal Prologo…

Il racconto prende avvio da un mio monologo iniziale, dove dichiaro di stare facendo autofinzione e mi presento al pubblico come Ejlert Løvborg, che è nato a Oslo, vive nell’anno 1890 e ha trentatré anni. È un gioco facilmente smascherabile che conduco fino a circa tre quarti dello spettacolo, quando, a seguito di una serie di incontri e vicende, mi spoglio del personaggio di Ejlert Løvborg e la storia procede in un’altra direzione…

Nel 2020, a partire da Čechov, hai allestito Platonov, la tragedia è finita, andato in scena anche al Teatro Grassi, nella stagione 21/22. Come nasce la tua passione per i classici e il desiderio di portarli in scena in questa forma così particolare?

Intravedo un punto di contatto tra me e un classico. Mi interessa sviluppare quella trama, ma anche ripercorrere le dinamiche sceniche dell’autore, ampliandole attraverso la mia scrittura. Desidero rivivere e narrare di nuovo quella storia, intrecciandola al mio sguardo, ma sempre seguendo l’autore che, nella maggior parte, dei casi ha scritto un testo dall’architettura perfetta.

Čechov o Ibsen?

Con Čechov andrei a prendere un aperitivo, mentre Ibsen incute timore, gli darei del Lei, gli parlerei osservando i suoi modi e i suoi tic comportamentali con curiosità… Mi colpisce ritrovare in tutti i suoi drammi un tema ricorrente, ossia la lacerazione tra la vocazione e il dovere, tra il dionisiaco e l’apollineo. La sua biografia restituisce l’immagine di un uomo metodico e abitudinario. Sceglie persino una compagna che possa aiutarlo a seguire la precisa routine che si è imposto, per lui indispensabile, perché probabilmente senza quel rigore avrebbe una personalità destinata a debordare, a sconfinare. Alla fine del suo percorso di uomo e di artista, mi pare che sempre più rinunci al vivere il reale per rifugiarsi nell’arte: forse è un modo per trovare una forma di equilibrio e di contenimento della propria natura. Credo che di Ibsen mi interessi questo.

È giusto dire che Ibsen abbia contribuito a una sorta di emancipazione e liberazione della donna?

Che abbia contribuito all’emancipazione e alla liberazione della donna non so. Credo sia assolutamente moderno non perché molti suoi drammi hanno protagoniste femminili, ma perché tratta la donna in quanto essere umano. Gli interessa indagare la natura umana quando è sottoposta a forme di coercizione e compressione sociale, cosa che, all’epoca, accadeva soprattutto alle donne; ma di fatto è l’umano in quanto tale ad appassionarlo, ed è questa la vera parità.

Scene e costumi presentano un intreccio di classicismo e contemporaneità. Ce ne parli?

Con Giuseppe Stellato abbiamo ragionato su una scenografia che si spostasse nello spazio. La prima parte dello spettacolo si svolge nell’arena del Teatro Studio Melato, con una disposizione degli ambienti che rompe la convenzione del salotto borghese cercando il contatto con il pubblico. Tutti i personaggi, tranne Hedda Gabler, hanno ricevuto l’indicazione di relazionarsi con il pubblico, anche solo con lo sguardo. Nella seconda parte, la scena progressivamente si allontana, come se Ibsen richiamasse a sé la drammaturgia e riprendesse le fila della propria opera, soffiandola via da me. La scena è di cartone, perché tutto deve apparire palesemente finto, ma anche perché è sottintesa l’idea di “prendere appunti” su Ibsen e su Hedda Gabler, in un gioco di verità e finzione. Per me è importante raccontare le convenzioni in cui è stretta Hedda Gabler, anche attraverso una continua alterazione delle convenzioni sceniche stesse. Un racconto, quindi, non tematico, ma subliminale che lavora sulla percezione dello spettatore. In fondo siamo tutti “vittime” delle regole che accettiamo, ma quando queste cambiano, ci troviamo disorientati. Ciò accade nelle nostre vite, come in teatro: in tutti quegli ambiti e ambienti dove esistono norme date che, tuttavia, non perché ci vengono tramandate, debbono essere vissute come immutabili.

Nei costumi di Gianluca Sbicca prende forma il gioco tra la mia drammaturgia e l’originale di Ibsen: tratti contemporanei si mischiano a elementi d’epoca, per restituire la sensazione che provavo leggendo Hedda Gabler: i personaggi vivono un secolo e mezzo prima di noi, di sicuro vestivano in modo diverso, ma ci assomigliano molto. Anche noi, come loro non riusciamo a vivere le nostre vite come vorremmo, anche noi siamo pistole cariche. Forse non tutti… ma molti potrebbero ammettere che è così…

Cosa ti piacerebbe che il pubblico ricevesse da questo spettacolo e come vorresti che lo approcciasse?

Mi piacerebbe che si lasciasse sorprendere da un modo di raccontare un testo di Ibsen in maniera non canonica, ma soprattutto che condividesse una riflessione intorno alla domanda “che cosa significa fare arte oggi?”. E quale forma scegliamo per comunicare noi stessi nella vita di tutti i giorni? L’arte e la comunicazione identitaria hanno in comune il non poter prescindere dalla scelta di una forma. Anche per questo ho scelto attori molto diversi tra loro, perché mi interessava contenere nel lavoro differenti stili di recitazione. Ma tornando al grande tema: l’“arte”. Ho l’impressione che, nel suo percorso artistico, Ibsen, seppure sempre abbastanza pessimista, abbia attraversato un periodo della vita in cui sperava che la sua letteratura teatrale potesse in qualche maniera incidere sulla realtà. Mi chiedo a che cosa serva davvero fare teatro, se possa innescare un’azione concreta, visto che è l’unica arte in cui esiste un incontro in presenza di corpi che si scambiano energie in un momento di comunità.

Ricollegandoci a questo, che cosa significa, per te, essere artista associato del Piccolo?

Devo ancora capirlo, perché sono appena entrato in questo contesto nuovo, che intuisco essere una possibilità di crescita notevole, per me e per il mio lavoro. Nella mia testa risuona una frase, teatro d’arte per tutti, il motto del Piccolo Teatro, che si lega strettamente a quanto dicevo prima, a come questo lavoro possa entrare nella quotidianità delle persone, non soltanto parlando di attualità, ma soprattutto aiutando a sviluppare strumenti critici per affrontare questioni essenziali per la nostra società. Non so se abbia a che fare con il mio essere artista associato: di sicuro c’entra con l’essere artista. Infine, auspico che ci sia dialogo tra i diversi artisti residenti e che diventi una casa di creazione.

OLTRE LA SCENA | HEDDA. GABLER. come una pistola carica
SGUARDI PARALLELI
Casa, dolce casa
Anteo Palazzo del Cinema (Piazza Venticinque Aprile, 8)

lunedì 5 dicembre, ore 19
Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti (1974)

lunedì 12 dicembre, ore 19.30
Sorrisi di una notte d’estate di Ingmar Bergman (1955)

giovedì 15 dicembre, ore 19.30
Hanna e le sue sorelle di Woody Allen (1986)

in collaborazione con Anteo spazioCinema (prenotazioni e biglietti su spaziocinema.info)

PREPERFORMANCE¬_TALK
Teatro Studio Melato

mercoledì 14 dicembre, ore 19
venerdì 16 dicembre, ore 19
martedì 20 dicembre, ore 18

PAROLE IN PUBBLICO

Chiostro Nina Vinchi

giovedì 15 dicembre, ore 17.30
Tante care cose! | La stufa
con Luca Mercalli (in collegamento)
modera Enrico Pitozzi

SEGNALIBRO

Chiostro Nina Vinchi

venerdì 16 dicembre, ore 17.30
Presentazione del libro
Trilogia sull’identità (prossima uscita Cue Press)

WALK_TALK

sabato 17 dicembre, ore 10.30
Residenza Vignale (via Enrico Toti 2 - MM1 Conciliazione)
in collaborazione con FAI - Delegazione di Milano

(laddove non diversamente specificato, gli appuntamenti sono a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su piccoloteatro.org)

Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli 6 – M2 Lanza), dall’1 al 22 dicembre 2022

HEDDA.
GABLER.
come una pistola carica
uno spettacolo di Liv Ferracchiati, con scene tratte da Hedda Gabler di Henrik Ibsen
traduzione di Andrea Meregalli
dramaturg di scena Piera Mungiguerra, aiuto regia Anna Zanetti
scene Giuseppe Stellato, costumi Gianluca Sbicca, luci Emiliano Austeri, suono spallarossa
consulenza letteraria Andrea Meregalli, lettore collaboratore Emilia Soldati
con (in ordine alfabetico)
Francesco Alberici, Liv Ferracchiati, Giulia Mazzarino,
Renata Palminiello, Alice Spisa, Petra Valentini, Antonio Zavatteri
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Foto di scena Masiar Pasquali

Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica e festivi, ore 16.

Lunedì, riposo.

Le recite di giovedì 1°, sabato 3, giovedì 15 e sabato 17 dicembre sono sovratitolate in inglese

(a cura di Prescott Studio)

Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro

Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org

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