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mercoledì 2 giugno 2021

 PICCOLO TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
"HAMLET"
LA NUOVA REGIA DI ANTONIO LATELLA
LA TRAGEDIA DEL SILENZIO DELL'AMBIGUITA' E DEL DUBBIO

Dal 5 al 27 giugno 2021
Un Hamlet da vedere, ma non solo. Con la sua nuova regia per il Piccolo, in scena in prima nazionale da sabato 5 giugno, Antonio Latella, suggerisce al pubblico di porsi, di fronte al classico shakespeariano, in una dimensione di ascolto: un testo che «suggerisce sempre qualcosa che potrebbe essere, ma non è».

Il debutto era programmato per il 17 marzo 2020. Lo spettacolo era in prova, quando il 23 febbraio le prime norme per il contenimento della pandemia imposero la sospensione delle rappresentazioni. Oggi, a più di un anno di distanza, Hamlet di William Shakespeare, la nuova regia di Antonio Latella per il Piccolo Teatro di Milano si presenta finalmente al pubblico, in prima nazionale, al Teatro Studio Melato, dal 5 al 27 giugno. Lo spettacolo è articolato in due parti, fruibili separatamente (nei giorni della settimana, a partire dalle ore 18) o integralmente nei weekend (a partire dalle ore 14).

Dieci attori di diverse età, formazione e provenienza (in ordine alfabetico, Anna Coppola, Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Michelangelo Dalisi, Ludovico Fededegni, Francesco Manetti, Fabio Pasquini, Stefano Patti, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino); la nuova traduzione realizzata per l’occasione da Federico Bellini; una scenografia, firmata da Giuseppe Stellato, che è parte integrante della drammaturgia (a cura di Linda Dalisi): Hamlet si annuncia come un’esperienza di teatro totale, che, complice l’arena dello Studio, accompagna il pubblico nell’esplorazione delle pieghe più nascoste di un testo immortale. I costumi, che giocano con una logica binaria, contraddicendola, sono di Graziella Pepe, le luci, che si innestano in una scelta di rappresentazione in piena luce, di Simone De Angelis, le musiche e il suono, che intrecciano silenzio e follia, di Franco Visioli. La produzione è del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.

Antonio Latella al Piccolo Teatro di Milano

Il legame tra Antonio Latella e il Piccolo si stringe per la prima volta nel 2006, quando al Teatro Grassi, in aprile, il regista porta Edoardo II di Christopher Marlowe, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria. Tre anni più tardi, nel gennaio 2009, torna con Moby Dick di Hermann Melville, coprodotto da Stabile dell’Umbria e Teatro di Roma, questa volta al Teatro Strehler. È nuovamente in via Rovello, nel marzo 2013, con Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, una coproduzione ERT e Teatro Stabile di Catania. La prima volta allo Studio è nel novembre 2016 con Ma di Linda Dalisi, prodotto da stabilemobile, la compagnia di Latella.

Il regista firma la prima produzione per il Piccolo nel 2017: Pinocchio debutta in prima nazionale, al Teatro Strehler, il 19 gennaio. Nel maggio 2018, ancora allo Studio, dove tra pochi giorni debutterà la seconda produzione del Piccolo con la sua regia, arriva Santa Estasi, sempre prodotto da ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Piccolo Teatro Studio Melato (Via Rivoli, 6 – M2 Lanza), dal 5 al 27 giugno 2021
Hamlet
di William Shakespeare, traduzione Federico Bellini, drammaturga Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis, musiche e suono Franco Visioli
con (in ordine alfabetico)
Anna Coppola, Francesca Cutolo, Flaminia Cuzzoli, Michelangelo Dalisi, Ludovico Fededegni, Francesco Manetti, Fabio Pasquini, Stefano Patti, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Foto di scena Masiar Pasquali

Il calendario delle recite

Lo spettacolo è articolato in due parti che possono essere fruite separatamente o integralmente.

Le rappresentazioni integrali sono programmate nei fine settimana (sabato 5 e domenica 6 giugno / sabato 12 e domenica 13 giugno / sabato 19 e domenica 20 giugno / sabato 26 e domenica 27 giugno), con inizio alle ore 14 e durata di circa 6 ore e 40 minuti compreso un intervallo di un’ora tra la prima e la seconda parte e due brevi intervalli intermedi all’interno di ogni parte.

La visione in due giornate distinte prevede l’acquisto contestuale di due date al costo di un singolo biglietto, secondo i seguenti abbinamenti vincolati:

chi assiste alla prima parte martedì 8 giugno (ore 18), vedrà la seconda giovedì 17 giugno (ore 18). E così via, secondo il seguente schema:

mercoledì 9 giugno, ore 18 – venerdì 18 giugno, ore 18

giovedì 10 giugno, ore 18 – martedì 22 giugno, ore 18

venerdì 11 giugno, ore 18 – mercoledì 23 giugno, ore 18

martedì 15 giugno, ore 18 – giovedì 24 giugno, ore 18

mercoledì 16 giugno, ore 18 – venerdì 25 giugno, ore 18

La durata della prima parte è di circa 3 ore e 10 minuti più un intervallo di 15 minuti; la durata della seconda parte è di circa 2 ore più un intervallo di 15 minuti.

Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro.

I biglietti si possono prenotare e acquistare attraverso la biglietteria telefonica (02.42.41.18.89 da lunedì a sabato 9.45-18.45 [anche mercoledì 2 giugno], domenica 10-17. Festivi chiuso) o presso la biglietteria del Teatro Strehler (da lunedì a sabato 9.45-18.45, domenica 13-18. Festivi chiuso)

Informazioni e prenotazioni 0242411889 - www.piccoloteatro.org

News, trailer, interviste ai protagonisti su www.piccoloteatro.tv

Conversazione con Antonio Latella

A cura dell’Ufficio Edizioni del Piccolo Teatro di Milano

«Dedico questo spettacolo a una spettatrice speciale, Maria Grazia Gregori»

La conversazione con Antonio Latella è avvenuta in due tempi, prima e dopo l’interruzione delle attività dovuta alla pandemia e al conseguente spostamento del debutto di Hamlet dalla stagione 2019/20 alla 2020/21.

Le ultime tre domande raccolgono le impressioni del regista alla ripresa delle prove, dopo la sospensione.

È il tuo terzo Hamlet. Perché sei tornato più volte su quest’opera? Cosa è cambiato rispetto alle regie precedenti?

È una promessa che feci a me stesso quando misi in scena Hamlet per la prima volta: ripensarlo ogni dieci anni – questi, all’incirca, i tempi che mi sono dato – per capire di volta in volta dove mi trovo, non solo rispetto alla regia shakespeariana, ma alla professione stessa di regista. Dirigere Hamlet significa misurarsi con il testo “del fallimento”: quando lo si affronta, si è consapevoli di non poterlo possedere interamente. È il testo “dello studio”, quello che permette di confrontarsi con se stessi e con il proprio lavoro. A ogni età della vita, Hamlet è qualcosa di completamente diverso. Mi sono reso conto che, probabilmente, non lo avevo mai davvero ascoltato. Avevo sempre pensato a “come farlo”, a trovare delle soluzioni “per farlo”. Non mi ero mai, realmente, posto in una dimensione di ascolto del testo. Oggi mi concedo una nuova possibilità, che mi permette di non avere paura di avere paura, mi impedisce di considerare il fallimento qualcosa di negativo e mi spinge, invece, a leggerlo come un evento positivo e creativo.

In questo diverso approccio rientra anche la traduzione commissionata per lo spettacolo?

Proprio perché è il mio terzo Hamlet, per me era importante che il testo avesse un suono diverso. Ho domandato a Federico Bellini una nuova traduzione – un impegno che gli ha richiesto almeno un anno e mezzo di lavoro – perché ero in cerca di un linguaggio che mi allontanasse da quanto avevo già sentito. Questo approccio mi ha permesso di affrontare il testo come se non lo avessi mai letto, di scoprirne zone che non avevo mai preso in considerazione o che, forse per la giovane età di allora, avevo tralasciato. Mi sono confrontato con Hamlet come se fosse la prima volta che ci incontravamo, nonostante la maturità e l’esperienza accumulata.

Nei primi giorni di prove hai richiamato l’attenzione sulle parole “dubbio”, “fede”, “sembra”. Se Hamlet è la tragedia del dubbio, la tua interpretazione vuole espressamente “stare nel dubbio”. Cosa intendi?

Hamlet non è bianco o nero, non concede la possibilità di prendere una strada e decidere che è quella corretta da seguire. Hamlet è tutto ciò che sta tra il bianco e il nero, tutto quel che è nel mezzo. È il testo che non offre mai la soluzione; al contrario suggerisce sempre qualcosa che potrebbe esserlo, ma non lo è. Affannarsi a trovare una risposta precisa significa non affrontare veramente il dubbio, inteso come opportunità di processo creativo. Spesso ho fatto notare agli attori come si stessero incamminando su percorsi troppo connotati, che identificavano i personaggi come “il buono” o “il cattivo”: a tutti i costi andava evitata la possibilità che il pubblico potesse simpatizzare con un personaggio o invece respingerlo. Ciascuno di loro è ben più complesso perché lo si possa risolvere così semplicemente. La scrittura di Shakespeare, le sue parole sono incredibilmente ambigue, ogni termine racchiude più significati. All’atto di tradurre, inevitabilmente, una buona parte di quella ricca ambiguità si perde: la scelta di un termine in luogo di un altro comporta una selezione, a monte, che cancella una porzione di dubbio. Di conseguenza, con gli attori, sono andato nella direzione di continuare a togliere loro ogni soluzione, per lasciarli in quella condizione di “panico” che però credo sia lo stato emotivo più opportuno per accostarsi ad Hamlet.

Parallelamente alle prove, gli attori, con la drammaturga Linda Dalisi, hanno compiuto un viaggio attraverso la fortuna scenica di Hamlet. Come questo percorso si è poi riversato nella recitazione?

La dramaturg Linda Dalisi ha svolto il ruolo di un detective, continuamente a caccia di informazioni, di tracce. In questo modo ha accompagnato gli attori attraverso buona parte degli Amleti del Novecento. È servito loro per comprendere che il testo resta e resterà l’unico elemento fondante: le regie saranno dimenticate, le interpretazioni cadranno nell’oblio… Il testo è e sarà l’unico documento cui sarà dato, in futuro, di raccontare la storia di Amleto. Esattamente come è avvenuto in passato. A ogni epoca l’umanità ha guardato se stessa attraverso gli occhi di Amleto. Il lavoro di Linda ha aiutato gli attori ad assumersi la responsabilità di parole che hanno attraversato il tempo e i secoli, ogni volta facendosi specchio della contemporaneità. Non mi interessava che costruissero un repertorio di intonazioni, ma che stessero in scena assumendosi la responsabilità dell’intero testo, non solo del proprio personaggio.

Che personaggio è Hamlet? Con Federica Rosellini senti di essere riuscito a costruire un Hamlet diverso?

Non è stata una decisione programmata: prima di portare in scena il terzo Hamlet dovevo capire chi sarebbe potuto essere il Principe di Danimarca. Durante le prove di un altro spettacolo, lavoravo con Federica Rosellini e ho pensato: “Ecco l’Hamlet che sto cercando”. Federica possiede il dono artistico dell’ambiguità e del dubbio. Per me l’Hamlet del XXI secolo va oltre la sessualità, oltre la distinzione donna/uomo, per approdare a una condizione altra. Ovviamente, aver scelto una donna mi permette di impostare un rapporto con il pubblico diverso da un approccio tradizionale, di avere uno slittamento continuo: nei classici le parole non hanno genitali, volano talmente al di sopra di tutto, da fare la differenza.

Cosa intendi quando dici che la parola, in quest’opera, è un atto politico?

Se togli alla parola la psicologia e la consegni per quello che è, essa diventa politica, possiede una potenza fuori dal comune. È veramente il grande dono fatto all’uomo: attraverso la parola abbiamo cambiato la nostra specie. La parola e l’alfabeto sono l’infinito dell’umanità, perché consonanti e vocali, nelle loro innumerevoli combinazioni, creano costellazioni inesauribili. Ma è una parola intesa come responsabilità, come assunzione politica di responsabilità, non vacuo chiacchiericcio. Credo che, in questo momento storico, sia un discorso interessante…

Si può dire che Hamlet sia un compendio di stili e di modi di fare teatro?

Non credo si debba parlare di stili e linguaggi, ma di un unico linguaggio che evolve, a partire da un’originaria neutralità, strutturandosi in diversi livelli. Ciascuno di noi, nel momento in cui affronta il mondo al mattino, fino a quando torna nella propria casa molte ore dopo, è bersagliato da linguaggi differenti. Se possiede un baricentro, può gestirli, mantenendo il proprio equilibrio e al tempo stesso filtrando le sollecitazioni che lo hanno contaminato: la capacità di mostrarsi aperti ai tanti linguaggi, di appropriarsene per convogliarli all’interno del proprio modo di stare nel mondo si traduce nella quotidiana scrittura della vita che, nel nostro caso, diventa scrittura scenica.

Sfruttando la specificità del Teatro Studio Melato, lo spettacolo accade tra il pubblico, gli spettatori sono parte della corte di Danimarca e tutto si svolge davanti ai loro occhi…

Era importante che gli spettatori non si trovassero davanti a una scelta preconfezionata, cioè al mio punto di vista su Hamlet. Volevo che condividessero con me uno studio, una ricerca. Non c’è bisogno di un altro Hamlet, di un’altra regia di Hamlet. “Latella che fa Hamlet” non rappresenta un elemento di novità: l’originalità di questa proposta sta nel suggerire agli spettatori di provare, non solo a guardare, ma ad ascoltare insieme. Allo spettatore chiedo di scegliere la parola che più lo colpisce, le battute che porterà con sé: non devo essere io a sottolinearle. E il Teatro Studio Melato è lo spazio ideale per questa forma di comunione e condivisione della parola.

Perché hai pensato a un disvelamento del gioco teatrale e a una rappresentazione in piena luce?

Era fondamentale sopprimere il privato dello spettatore, evitare che, all’abbassarsi delle luci, si raccogliesse in se stesso. La luce reca con sé una componente estetica – quindi anche di incanto – è un aggettivo all’interno della scrittura scenica, sono altre “parole” che si aggiungono a quelle del testo. In questo spettacolo era fondamentale eliminare ogni aggettivo, per puntare al cuore della parola.

I costumi, nella loro solo apparente “serialità”, sono un segno fortissimo. Da dove è nata l’idea dello smoking bianco e del vestito elisabettiano nero?

È stata una scelta per far capire che tutti siamo Hamlet, intendo il personaggio Hamlet, perché è il testo ad essere Hamlet e ogni attore è un vettore del testo. L’abito bianco, oltre ad essere l’evocazione di un fantasma, per molti attori risulta di una taglia troppo grande: a monte dichiariamo il “fallimento” di un costume che non può essere indossato, quindi di un testo che non potremo mai piegare a noi stessi. Nella seconda parte dello spettacolo, l’abito elisabettiano richiama l’elemento femminile del testo: entriamo nel territorio della madre, ma al tempo stesso, dal momento che, diversamente dall’abito bianco, l’abito nero denuncia apertamente la sua natura di costume, entriamo in un’altra zona del testo, quella della rappresentazione, dove tutte le follie teatrali sono ammesse.

E il costume di Orazio?

Orazio è l’eletto, è il testimone, evangelicamente diremmo l’apostolo, colui che è stato chiamato a raccontare la storia di Hamlet. Non un narratore, bensì uno sguardo esterno, che a poco a poco conferisce al testo, attraverso la lettura, una crescente concretezza, lo trasforma in personaggi. Perché questo processo potesse accadere, era necessaria una figura che possedesse una contemporaneità di cui gli altri sono privi, che potesse entrare e uscire dal tempo dello spettacolo.

Perché la musica in scena?

La musica riconduce al silenzio. Laerte siede al piano, perché porta con sé la musica di Ofelia, ma non riesce a suonarlo: batte tasti che non producono note. La melodia esploderà nel momento in cui il teatro, quando gli attori arrivano a corte, entrerà in scena, portando con sé la follia, che non è della sola Ofelia ma riguarda tutti. Al dilagare della follia, le note tornano a cadere a pioggia, le melodie si scompongono e si ricompongono.

Hai scelto di abbracciare Hamlet nella sua interezza, senza tagli, proponendone una lettura integrale. Al pubblico chiedi di esserti accanto in questo impegno…

Sono abituato a proporre spettacoli lunghi e credo molto nel pubblico che si appassiona a rappresentazioni di durata considerevole. A monte vi leggo una scelta in direzione opposta a quella del mero intrattenimento: “regalarsi un tempo”, come la durata di uno spettacolo, è di nuovo un’assunzione di responsabilità. Ci sono testi per i quali la lunghezza è fondamentale. Pone il pubblico in condizione – anche per stanchezza – di sospendere il giudizio su quel che sta vedendo, per arrendersi, finalmente, alla catarsi. Solo allora, quando le barriere sono cadute, quello cui lo spettatore sta assistendo diventa realmente parte di lui, non è più solo una rappresentazione. L’esperienza vissuta gli permetterà, a distanza di ore e di giorni, di ricostruire nel tempo frammenti di quel sé, di rivederli e di ripensarci. Nell’epoca in cui viviamo, questo approccio può spaventare: le serie televisive, per fare un esempio, hanno in media una durata di 45 minuti… Però ci costringono a subire un ritmo che non ci appartiene. Il tempo è un elemento divino, cui tentiamo continuamente di sottrarci. Abbiamo perso la capacità di stare nel tempo… Accettarlo, anche nelle sue dilatazioni, dovrebbe essere parte di quel processo creativo su cui si fonda l’esistenza di ciascuno di noi.

Dopo più di un anno ci rivediamo per parlare del tuo Hamlet. In mezzo, una pandemia.

La pandemia, che non si è ancora conclusa, ci costringe tuttora a guardare le nostre vite e il nostro lavoro in modo diverso da prima. Sono trascorsi quattordici mesi, da quando eravamo in prova con Hamlet, nel corso dei quali non ho mai aperto il copione: trovavo troppo doloroso leggere quello che, di fatto, è il racconto di una fine, la storia di un regno che deve cessare di esistere. La pandemia mi ha portato a riflettere sul finale, la celebre battuta il resto è silenzio. Quello che è trascorso, soprattutto per il mondo del teatro e dello spettacolo dal vivo, è stato un intero anno, un periodo interminabile, in cui la parola ci è stata tolta. Allo stesso modo, riflettere sull’essere o non essere mi ha fatto comprendere cosa significhi stare senza essere, che è quanto ci è accaduto durante il lockdown, ma che forse è quanto ci accadeva anche prima, solo che il fatto di trovarci sempre in movimento ci faceva illudere di essere. L’essere o non essere diventa allora un pensiero, una riflessione che ci unisce tutti e si collega a un’altra questione: per come lo avevo pensato nella primavera del 2020, Hamlet sarebbe dovuto penetrare tra il pubblico, celare gli attori tra gli spettatori. Il distanziamento imposto dalle norme sanitarie impedisce di avere un pubblico fitto, con persone sedute l’una accanto all’altra. Per assurdo, porta in primo piano l’individuo: per gli attori, rivolgersi a una sala di 80, 85 persone significa guardare ciascuno spettatore negli occhi, senza indirizzarsi a una generica comunità senza volto. Forse, in questo modo, il loro agire acquista una profondità e una forza maggiori di quel che avevo immaginato nel precedente assetto.

Da quando è stato possibile riaprire le sale, il pubblico ha subito manifestato il vivo desiderio di tornare in teatro. Saranno spettatori diversi da prima? Che idea ti sei fatto?

Nei mesi scorsi ho riflettuto molto sul rapporto con gli spettatori. Sono un regista che ha sempre pensato al pubblico, anche quando lo voleva scuotere, perché lo considero un personaggio dello spettacolo. Scuoterlo, del resto, non significa non amarlo, ma metterlo nella condizione di operare delle scelte, di discutere e porsi domande. Ogni volta che affronto un nuovo testo non è perché abbia la personale ambizione di portarlo in scena, ma perché voglio dire qualcosa a chi viene a vederlo.

In questo periodo, ho sofferto molto nel vedere le mie nipotine chiuse in casa, nelle loro stanze, senza amici, senza nessun coetaneo con cui parlare; tuttavia, le vedevo occupare il tempo leggendo tantissimo. Attraverso di loro ho capito quanto tutti noi abbiamo bisogno di storie, da leggere, da guardare e da ascoltare: siamo destinati alle storie, è il nostro viaggio. Ciascuno di noi ha bisogno di un’altra storia in cui specchiarsi, per guardare, ascoltare e comprendere la propria: è il motivo per cui il teatro esisterà sempre e per cui ho sempre pensato che, alla riapertura, il pubblico sarebbe tornato.

Hai detto che, quando crei uno spettacolo, hai ben chiaro che cosa vuoi dire al pubblico. Che cosa avresti voluto dire con l’Hamlet nel 2020 e cosa intendi comunicare con lo spettacolo del 2021?

Un anno fa pensavo a questo lavoro in modo totalmente diverso: lo immaginavo come un luogo di condivisione e di studio. Oggi, per me, è un percorso che si chiude: avrò bisogno di tempo prima di trovare un’altra storia da raccontare. Questo mio terzo Amleto è un commiato da un percorso che è durato quasi quarant’anni, è il compimento di un viaggio. È un ciclo che si chiude, per lasciare spazio al privato. È capire dove sono e che cosa voglio da me. Il virus ha fermato la corsa: è tempo di prendere in mano la mia storia e di smettere di raccontare le vite degli altri.

Hamlet, appunti per una traduzione

di Federico Bellini

Non credo che un’opera come Hamlet possa dare certezze a un traduttore, o a chiunque si appresti ad affrontarla in modo critico. Ogni parola ha più significati, varianti, possibilità interpretative, come ne sono testimoni le innumerevoli riletture operate nei secoli; è persino improprio, forse, parlare di un testo “originale” al quale fare riferimento, viste le interpolazioni cui il testo shakespeariano è stato soggetto nelle varie edizioni, non solo nel primo e secondo in-quarto e nell’in-folio del 1623, le tre principali versioni del testo a noi pervenute.

Questa versione di Hamlet si affida in gran parte al secondo in-quarto, il cosiddetto good Quarto, con alcuni emendamenti e passaggi tratti dall’in-folio, laddove si è ritenuto fossero importanti per la fruizione dell’opera. È il caso, ad esempio, dell’integrazione, qui presente, del passaggio contenente le indicazioni che Hamlet offre al Primo Attore sul ruolo e l’attività del clown (Atto terzo), che ho ritenuto importante inserire nel contesto di una traduzione impegnata a cogliere i rimandi alla pratica teatrale. Riguardo ad alcuni termini presenti nel testo, credo sia onere del traduttore scegliere a quale edizione dell’opera rivolgersi, o meglio, con quale studioso dell’opera concordare o a quale dar fiducia. La carne di Hamlet può essere solida quanto sudicia, a seconda che si legga solid, come suggerisce l’in-folio, o sallied, riportato dal secondo in-quarto come probabile modifica di sullied.

È questo solo un esempio, forse uno dei più eclatanti, che credo aiuti un traduttore ad abbandonare ogni pretesa di restituire correttamente l’opera.

Affrontare Hamlet, a mio avviso, significa prima di tutto accettare di perdersi nelle possibilità pressoché infinite che quest’opera offre, nella consapevolezza che nulla di ciò che viene tradotto possa ritenersi oggettivo, imparziale o fedele alla parola shakesperiana. Si tratta, da subito, di accettare un’incompiutezza e un fallimento. È così, forse, per ogni tentativo di restituzione linguistica di un classico, ma, nel caso di Hamlet, mi pare che questo sia quasi un tratto costitutivo dell’opera, il dubbio che a poco a poco si insinua nel profondo di ogni frase o personaggio fino a mettere in discussione qualsiasi ipotesi interpretativa. Questa traduzione si muove, in ogni sua parte, nella dialettica tra verità e menzogna, o, su un altro piano, tra la realtà e la sua rappresentazione.
In Hamlet il teatro irrompe, plasticamente, con l’arrivo degli attori a Elsinore; eppure, le parole di Shakespeare si rivolgono al rappresentare, al recitare o soltanto al citare fin dalle prime battute, come il primo monologo di Hamlet personaggio sembra suggerirci. Il testo è interamente percorso da riferimenti alla pratica teatrale, quasi che, più che a Elsinore, ci trovassimo all’interno di un Globe davvero poco confortevole, in cui forse niente è come appare. Shakespeare stesso sembra alludervi nel celebre discorso che Hamlet rivolge a Rosencrantz e Guildenstern nel secondo atto, che appare quasi come una confessione privata di un uomo confinato nel guscio non più confortevole della scena. Il mondo stesso diviene, in quel frangente, il teatro, o, se si vuole, è il teatro stesso a essere diventato il mondo, in un sovrapporsi che può al contempo esaltare o soffocare, uno spazio infinito e angusto al tempo stesso, territorio del sogno e dell’incubo. Seguendo tale direzione, ho cercato di evidenziare rimandi o allusioni all’azione scenica, e di porre un’attenzione particolare all’alternanza di versi e prosa, alle continue rime o assonanze, al posizionamento delle parole all’interno della frase inglese.
In Hamlet, come sappiamo, poesia e prosa coesistono; ho cercato di rispettare la struttura formale del testo inglese, non soltanto per ragioni stilistiche ma perché ritengo possa suggerire o aiutare una lettura che si interroghi sulla verità di ogni affermazione, e quindi sull’arte del re-citare, che spesso è un ben mentire. Allo stesso modo ho provato a riportare in italiano, per quanto mi è stato possibile, rime e assonanze quando presenti nel testo, almeno laddove quest’operazione non comportava significative perdite di senso. L’utilizzo più evidente della rima si trova, in questa traduzione come nell’originale shakespeariano, nelle parole degli attori a corte; forse, utilizzando proprio in quel momento tale forma, Shakespeare ci offre alcune indicazioni, o almeno feconde suggestioni, sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Rispetto al linguaggio dei personaggi, Hamlet è, come probabilmente ovvio, anche una grande summa delle possibilità della lingua, declinata in ogni sua accezione. Nell’opera, ogni parlante assume una lingua che allo stesso tempo lo connota e che egli stesso modula a seconda del contesto in cui si trova. Da questo punto di vista, Hamlet è una lunga, profonda domanda su dove il linguaggio possa spingersi, quale forma assumere, quale ruolo interpretare; tutto è qui presente, dall’enfasi lirica all’oscenità, dall’uso manipolatorio della parola al sottile sottotesto politico, dall’abuso retorico al compiacimento estetico o ai continui rimandi religiosi. Fino addirittura a comprendere e racchiudere l’errore stesso, che sia in forma di sgrammaticatura o di frase apparentemente infelice, che proprio grazie alla sua imperfezione ci offre interessanti chiavi d’analisi; a volte, in Hamlet, i personaggi paiono perdersi in ciò che stanno dicendo, quasi naufragando in periodi fin troppo complessi. Per sottolineare quest’aspetto, ho operato alcune piccole aggiunte di testo all’originale, cercando di renderlo chiaro a uno spettatore o ascoltatore italiano; sono piccole integrazioni, incisi, sottolineature di esitazioni che mi auguro possano aiutare la comprensione di ciò che viene detto, e soprattutto a evidenziare che tutti i personaggi, non solo Hamlet, sono alle prese con la difficoltà e l’estasi del linguaggio, in un duello probabilmente senza vincitori. Perlopiù, in definitiva, mi sono attenuto al tentativo di restituire la forza e la profondità dell’opera per com’è scritta, con poche concessioni o licenze letterarie, e, soprattutto, senza la velleità di dire “è così”. Così sembra, direi, in accordo con quanto afferma il testo stesso. Segnalo qui, tra le scelte più visibili e forse singolari di questa versione, l’utilizzo dello spagnolo da parte di Reynaldo, che mi è stata suggerita dal probabile richiamo del personaggio a quello che è uno dei primi veri teorici dell’Inquisizione, Reginaldo Montano, non a caso chiamato da Polonio a condurre un’indagine, forse, sarcasticamente inquisitoria; la lingua ironica e solo apparentemente incolta dei clown-becchini, che ho enfatizzato proponendo anche un latino divertito e sgrammaticato; l’affettazione manierista di Osrick, vera e propria critica al linguaggio come moda, senza dimenticare la pluralità dei codici in cui si esprimono Rosencrantz e Guildenstern, che alternano prosa e poesia a seconda della propria convenienza, in questo veri e propri compagni d’infanzia di Hamlet. Il tutto per provare a restituire, almeno in parte, la superba attenzione che Shakespeare ripone nei personaggi cosiddetti secondari, rivestendoli di una sofisticata caratterizzazione.
Perché se è vero, naturalmente, che l’Hamlet personaggio è il protagonista della storia, è anche vero che Hamlet è l’intero testo, il terreno di battaglia su cui si battono, anche linguisticamente, tutti i contendenti.

Al centro del maelstrom

di Linda Dalisi

Esiste un grande vortice, a nord delle coste della Norvegia, un maelstrom spettacolare e misterioso. Così immagino questo incontro con l’opera-Amleto.

Il Maelstrom-Amleto tormentato da una costante domanda: perché Amleto è così immenso?

Cosa c’è in queste parole?

Sembrano le parole di una formula magica che, se pronunciate in un dato tempo e in un dato spazio, sotto determinate congiunzioni astrali, ti portano in una dimensione altra.

Perché l’opera Amleto tocca tutti, tutti prima o poi lo incontrano?

Prima di iniziare le prove, Antonio Latella mi ha chiesto di portare degli approfondimenti sulle più importanti messe in scena di Amleto del passato, da condividere nel processo creativo di tutta la compagnia. Questa volta, diversamente dai precedenti lavori, ci siamo resi conto che non avrebbe avuto senso affrontare la biografia dell’autore o le diverse teorie interpretative sulla sua opera, perché troppo vasto è il mondo dei punti di vista su Amleto, infiniti quanti sono i lettori. Sorvolando su tutte le rappresentazioni fino all’Ottocento sono partita da uno scritto di Oliviero Ponte di Pino, Il secolo Amleto, che mette sotto la lente un viaggio su Amleto attraverso spettacoli, curiosità e aneddoti, dal 1899 al 1999. Oliviero Ponte di Pino parte da una frase di Virginia Woolf: «Mettere per iscritto le proprie impressioni dell’Amleto, rileggendolo anno dopo anno, significa virtualmente stendere la propria autobiografia, perché noi diventiamo sempre più esperti della vita, e così Shakespeare sembra contenere ciò che abbiamo appreso» (Virginia Woolf, The Essays of Virginia Woolf, Londra 1987). E conclude: «Se è vero quello che ha scritto Virginia Woolf, allora raccontare quello che è stato Amleto nel Novecento, anno dopo anno, nella critica e negli spettacoli, significa dunque raccontare un po’ l’autobiografia del secolo».

Era un utilissimo punto di partenza. Uscendo poi dalla dimensione dell’elenco cronologico, ho elaborato e ampliato via via una mia griglia, che andava al di là delle sole messe in scena.

Oltretutto il mio pensiero partiva dal fatto che Antonio Latella ha già affrontato Amleto in diversi momenti della sua vita. Questo specchio tra secolo e artista mi sembrava poetico e interessante.

La mia lavagna di detective si è riempita di storie e curiosità, di pensieri e ricerche, di linguaggi, squarci, prospettive, progetti. Un giorno poi, amando così tanto le mappe, e soprattutto perdermici, ho capito che dovevo rifare daccapo quel grande schema, questa volta però doveva essere circolare.

A ispirarmi è stato De Santillana, che nel suo Il mulino di Amleto, indagando quanto il pensiero arcaico sia cosmologico, rintraccia una fonte del “mito” di Amleto in Snorri Sturluson: «Si dice, cantò Snaebjorn, che al largo, oltre quel capo laggiù, le Nove Fanciulle del Mulino dell’Isola rimestano con veemenza la macina di scogli crudele alle schiere - loro che nelle passate età macinarono la farina di Amleto. Il buon condottiero ara la tana dello scafo con la prua a becco della sua nave. Qui il mare viene chiamato il Mulino di Amlòδi».

Pian piano, così, è nato il Maelstrom Amleto. Un vortice vivo e contemporaneamente fantasma, uno spettro di creazioni e premonizioni, un invito ad agire, a leggere gli eventi, a rispettare la Madre, che forse è la propria lingua. Ogni giorno, nelle prime due settimane di lavoro, ho portato al tavolino quello che avevo trovato, scavando e trivellando il terreno-Amleto come un rabdomante in cerca di acqua. Ho scoperto che, col passare del tempo, non solo l’uomo ha cambiato costantemente punto di vista su quest’opera, ma quest’opera stessa ha cambiato lo sguardo dell’uomo di fronte al mondo. Così i miei racconti si sono trasformati: “Oggi l’Opera-Amleto ha fatto un’incursione nel dadaismo” oppure “Oggi l’Opera-Amleto ha per la prima volta indossato abiti contemporanei, siamo negli anni ‘20”, o ancora “poi Amletopera è stata riscritta dal punto di vista di altri personaggi”. L’Opera è autore e attore del tempo in cui vive, non subisce passivamente le letture che gli uomini hanno fatto di lei, è lei che legge dentro di noi. «Dobbiamo sforzarci di leggere Shakespeare con tutta l’attenzione possibile, pur sapendo che i suoi drammi leggeranno noi con forza ancor maggiore. Ci leggono fino in fondo», così Harold Bloom conclude la sua dedica al lettore del suo Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, e questa dell’opera che ci legge, sembra quasi fornire una risposta alla mia domanda iniziale, “perché è così immenso Amleto?”. È l’idea di un’opera viva, che nei secoli indossa abiti diversi, e fa esperienze diverse, diventando sempre lo specchio per l’essere umano che l’affronta, ecco dove mi ha portato la ricerca storica.

Jan Kott racconta meravigliosamente questa simbiosi tra opera e tempo, associandola all’immagine della spugna: «L’Amleto è come una spugna. Basta non stilizzarlo e non rappresentarlo come un pezzo da museo, perché assorba immediatamente tutta la nostra contemporaneità”.

Se ritorniamo al punto di partenza e all’idea di raccontare il secolo attraverso i passaggi che l’Opera ha fatto, rompendo all’indietro e in avanti le soglie dei secoli, questa cavalcata vorticosa diventa una lettura che, oltre a muoversi orizzontalmente, raccontando il procedere e l’evolversi delle idee, si muove verticalmente, scoprendoci di fronte alla magnificenza di uno scavo, come se seguissimo l’elica disegnata dalla trivella, assistendo contemporaneamente al variare degli strati del terreno. “Scoprirò la verità dovessi andare al centro della terra” dice Polonio. Metafora a parte, la consapevolezza dell’inesistenza di una singola verità aiuta il percorso di indagine. Questo movimento verticale, questo specchiarsi sia nelle parole di Shakespeare sia in quelle di coloro che lo hanno attraversato lasciandosi attraversare, lettori o interpreti, ha rimestato il terreno e il mare.

Dalla riscrittura per bambini dei fratelli Lamb alle messe in scena di Peter Brook, dalla versione in fumetto di Berardi-Milazzo-Trevisan (Un principe per Norma, edizioni L’isola trovata, 1984/85) alla folgorante visione di Nekrošius, dalla lingua di Testori o Moscato, fino a Manganelli, alle scenografie di Svoboda, ci siamo mossi dal cuore del dubbio a quello della vendetta, dal confine tra agire e non agire al regno degli attori che lo hanno interpretato.

Non c’è inizio o fine. Il vortice si muove con tutte le sue date storiche e le sue scoperte; con i fallimenti, i dolori, il sangue. Il sangue vive in questo labirinto che sembra quasi un orecchio, pronto e disposto all’ascolto e che nessun veleno può ammalare o distruggere.

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Gli spettatori con temperatura uguale o superiore a 37,5° non potranno accedere al luogo di spettacolo.

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