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venerdì 18 luglio 2025

 BOBBIO FILM FESTIVAL
DI MARCO BELLOCCHIO
XXVIII EDIZIONE

Giunto alla ventottesima edizione, il Festival per l’edizione 2025 riconferma la sua identità come spazio di incontro con i protagonisti e le protagoniste del grande Cinema e di confronto tra artisti e artiste, critici cinematografici, addetti ai lavori, studenti e appassionati della settima arte.


Oltre al dibattito del pubblico con i registi dopo le proiezioni dei film serali, nelle giornate del festival si terranno a Bobbio il corso di alta formazione in regia cinematografica “Bottega XNL – Fare Cinema” tenuto da Francesca Comencini, il corso “Lo Sceneggiatore: Scrivere per il cinema” con docenti Valia Santella e Bruno Oliviero e il corso “Il Critico cinematografico: Dalla visione alla recensione” con docente Anton Giulio Mancino, un’occasione formativa unica per gli studenti ma anche un innesto di vitalità per il Festival e per Bobbio, che si trasforma in una vera cittadella del cinema.

CALENDARIO DELLE PROIEZIONI
CHIOSTRO DI SAN COLOMBANO – ORE 21.15


Venerdì 1 agosto ore 21.15

VERMIGLIO

Italia, 2024
Regia Maura Delpero
Sceneggiatura Maura Delpero
con Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Roberta Rovelli, Martina Scrinzi, Orietta Notari
Fotografia Mikhail Krichman
Montaggio Luca Mattei
Musica Matteo Franceschini
Scenografia Pirra
Costumi Andrea Cavalletto
Produzione Cinedora con Rai Cinema, Charades, Versus
Distribuzione Lucky Red
Durata 119 minuti

Ospite della serata
la regista Maura Delpero


Vermiglio ha ottenuto 14 candidature e vinto 7 David di Donatello (Miglior film, Miglior regia e la Miglior sceneggiatura originale, Miglior produttore, Miglior casting e la Migliore fotografia) e 3 candidature ai Nastri d’Argento. Il film ha ottenuto il Gran Premio della Giuria – Leone d’argento – all’81° Festival del cinema di Venezia.

Sinossi

In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può farsi donna. Un ventre gonfiarsi e divenire creatura. Si può smarrire il cammino che portava sicuri a casa, si possono solcare mari verso terre sconosciute. In quattro stagioni si può morire e rinascere. Vermiglio racconta dell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale in una grande famiglia e di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.

Il cinema italiano con l’opera seconda di Maura Delpero si rinserra tra montagne, con un gergo locale e in un passato bellico che come ai tempi de La terra trema o L’albero degli zoccoli restituisce una forte diversità regionale e culturale, etnica e linguistica. Il richiamo immediato ai capolavori di Luchino Visconti ed Ermanno Olmi serve non a stabilire confronti, date le distanze abissali con la stagione del Neorealismo o la fine degli anni Settanta, ma a sottolineare come anche nella cornice trentina di Vermiglio, come in quella siciliana de La terra trema e quella bergamasca de L’albero degli zoccoli, la partita giocata sia quella dell’alterità e del rifiuto degli standard espressivi della produzione corrente. L’autrice, molto consapevole delle proprie risorse e delle prospettive del discorso molto al femminile che intende porta avanti, racconta un’epoca, un contesto sociale e geografico, un’antropologia del mondo che dallo spazio remoto della montagna si propaga nell’isola dall’altro capo d’Italia. Ma allo stesso tempo riflette sullo stato attuale e critico delle cose nel panorama nazionale e internazionale dell’audiovisivo. Insegue o ricerca il rigore del linguaggio rarefatto e inafferrabile, concepisce in termini di austerità estrema l’erigendo stile, struttura il racconto con il non detto anziché chiosare gli eventi maggiori. E lo fa quasi raggelando all’altitudine scelta l’ineludibile calore della passione che tra tensioni geografiche, generazionali e sessuali, si sviluppa e avviluppa gli animi, le sensibilità, le decisioni di vita, proprie e per conto terzi, di adulti e bambini.
(Anton Giulio Mancino)

Sabato 2 agosto ore 21.15

NONOSTANTE

Italia, 2023
Regia Valerio Mastandrea
Soggetto e sceneggiatura Enrico Audenino, Valerio Mastandrea
con Valerio Mastandrea, Dolores Fonzi, Lino Musella, Giorgio Montanini, Justin Alexander Korovkin, Barbara Ronchi e Luca Lionello e con Laura Morante
Fotografia Guido Michelotti
Montaggio Chiara Vullo
Musica Tóti Gudnason
Scenografia Roberto De Angelis
Costumi Veronica Fragola, Carlotta D’Alessio
Produzione HT Film, Damocle, Tenderstories con Rai Cinema
Distribuzione BIM Distribuzione
Durata 100 minuti

Ospite della serata
Il regista e attore Valerio Mastandrea

Nonostante è stato premiato ai Nastri d’argento per il Miglior soggetto.

Sinossi

Un uomo trascorre serenamente le sue giornate in ospedale senza troppe preoccupazioni. È ricoverato da un po’ ma quella condizione sembra il modo migliore per vivere la sua vita, al riparo da tutto e da tutti, senza responsabilità e problemi di alcun genere. Si sta davvero bene lì dentro e anche se qualche compagno di reparto si sente intrappolato, per lui ci si può sentire anche liberi come da nessun’altra parte. Quella preziosa routine scorre senza intoppi fino a quando una nuova persona viene ricoverata nello stesso reparto. È una compagna irrequieta, arrabbiata, non accetta nulla di quella condizione soprattutto le regole non scritte. Non è disposta ad aspettare, vuole lasciare quel posto migliorando o addirittura peggiorando. Vuole vivere come si deve o morire, come capita a chi finisce lì dentro. Lui viene travolto da quel furore, prima cercando di difendersi e poi accogliendo qualcosa di incomprensibile. Quell’incontro gli servirà ad accettare che se scegli di affrontare veramente il tuo cuore e le tue emozioni, non c’è alcun riparo possibile.

Valerio Mastandrea è un attore che di per sé porta in dote ai personaggi un tasso elevato di straniamento, disadattamento o ironico distacco dai luoghi comuni. L’ironia perpetua, non necessariamente comica, è un sintomo dell’essere personaggio a prescindere dai ruoli che incarna. Il passo decisivo della regia, già con Ride restando però dietro la macchina da presa, trova compimento in Nonostante dove è anche protagonista, eppure senza un’identità onomastica esplicita. Il suo “lui” si interfaccia con una “lei”, entrambi sono degenti in ospedale. Lo spazio deputato e la condizione di malati, privi però di nome e cognome, chiarisce l’intento allegorico del film, che respinge ogni presupposto realistico. L’opposizione verso l’esistente, da regista-interprete, fa sì che la parabola ospedaliera intercetti un titolo pronto a marcare ulteriormente le distanze: Nonostante. Se la scelta dei pronomi personali serve a dare contorno ai personaggi senza troppo calcarli, l’allusiva preposizione avversativa gli dà manforte. L’autoanalisi scatta mediante la relazione tra “lui” e “lei” nelle condizioni date, di pazienti e relativamente impazienti; e trova in quel “nonostante” l’indizio chiave di ciò che avrebbe potuto o dovuto impedire un qualcosa di imprecisato. Ma si tratta pur sempre di un impedimento venuto meno, “nonostante tutto”. Forse è proprio “nonostante” il cinema italiano che va per la maggiore, ad aver indotto Mastandrea a dirigere un secondo film.
(Anton Giulio Mancino)

Domenica 3 agosto ore 21.15

LE DÉLUGE – GLI ULTIMI GIORNI DI MARIA ANTONIETTA

Italia/Francia, 2024
Regia Gianluca Jodice
Soggetto e sceneggiatura Filippo Gravino, Gianluca Jodice con Guillaume Canet, Mélanie Laurent, Aurore Broutin, Hugo Dillon, Tom Hudson
Fotografia Daniele Ciprì
Montaggio Giuseppe Trepiccione
Musica Fabio Capogrosso
Costumi Massimo Cantini Parrini
Produzione Ascent Film con Rai Cinema e Adler
Distribuzione BIM Distribuzione
Durata 101 minuti

Ospite della serata
Il regista Gianluca Jodice


Le Déluge ha ottenuto 4 candidature e vinto 2 Nastri d’Argento per la Migliore scenografia e per i Migliori costumi; ha vinto inoltre, 4 David di Donatello per la Migliore scenografia, i Migliori costumi, il Miglior trucco e la Miglior acconciatura.

Sinossi

Quando si parla di Maria Antonietta e di Luigi XVI vengono subito alla mente merletti, alte parrucche, vestiti sgargianti, Versailles oppure la ghigliottina. Tra questi due estremi, c’è un tempo che nessuno ha mai raccontato: i pochi mesi in cui gli ultimi re e regina di Francia con i loro due figli vennero incarcerati in un castello alle porte di Parigi, in attesa di essere giustiziati. Un tempo breve e condensato, dove tutte le maschere caddero. Quelle dei due reali come figure pubbliche e private e quelle della Storia che voltò definitivamente pagina.

Gianluca Jodice, che ha già esordito nel lungometraggio con un film in costume, Il cattivo poeta sulla figura controversa di Gabriele D’Annunzio, in Le deluge prosegue nella sua indagine storica separando le persone dai personaggi, avvicinandole in quanto tali e distinguendole dalle azioni. Cosicché l’elemento privato scavalca quello pubblico e consente una riflessione sul fattore umano ineludibile. La macchina da presa, volentieri fissa, si concentra sui personaggi celebri senza giudicarli, ma nel contempo si fa arbitra di un destino dove è vietato giocare la carta del coinvolgimento fisiologico, percettivo e ottico. Se soltanto si muovesse, l’obiettivo cinematografico determinerebbe nello spettatore una reazione immediata, una “commozione”, nell’accezione letterale del termine: il “muoversi con” non è nelle corde di Jodice, specialmente ne Le deluge, dove la notorietà dei personaggi e la conclamazione dei fatti si trasforma in una sfida per farne affiorare la componente psicologica e caratteriale. I “Reali” di Francia diventano così “reali” per altri versi, smarrendo l’ingombrante maiuscola iniziale: restano cioè “regali” come prescritto dalla “recita della Storia” e dalle circostanze, salvo sottrarsi al vincolo istituzionale mentre si scoprono all’improvviso, nella sventura, preda di moti interiori. Mediante il dispositivo filmico, la distanza stessa nella rappresentazione si traduce in paradossale sintomo audiovisivo di vicinanza e comprensione altrimenti inconfessabili.
(Anton Giulio Mancino)

Lunedì 4 agosto ore 21.15

CIAO BAMBINO

Italia, 2024
Regia Edgardo Pistone
Soggetto e sceneggiatura Ivan Ferone, Edgardo Pistone
con Marco Adamo, Anastasia Kaletchuk, Luciano Pistone, Pasquale Esposito, Salvatore Pelliccia
Fotografia Rosario Cammarota
Montaggio Giogiò Franchini
Musica K-Conjog
Costumi Antonella Mignogna
Produzione Bronx Film, Anemone Film, Mosaicon, Film Minerva Pictures Group
Distribuzione FilmClub Distribuzione by Minerva Pictures
Durata 95 minuti

Ospite della serata
Il regista Edgardo Pistone


Ciao bambino è stato premiato al Roma Film Festival come Miglior opera prima e ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Tallinn Black Nights Film Festival. Il film ha inoltre ottenuto 1 candidatura ai Nastri d’Argento e 2 candidature ai David di Donatello.

Sinossi

Sul finire dell’estate dei suoi diciannove anni Attilio, un ragazzo che vive in un rione popolare di Napoli, viene incaricato di proteggere una giovane prostituta dell’Est. Attilio, senza poterlo ammettere apertamente, se ne innamora. Quando però il padre esce dal carcere ed è costretto a ripagare un debito consistente, Attilio si trova a scegliere tra l’amore per la ragazza e quello per il padre, mettendo in gioco la sua libertà e la sua vita fino a quel momento.

C’erano una volta i ragazzi di strada napoletani raccontati da inchieste, letteratura e spettacolo. Ma il loro orizzonte di disagio sociale, sottosviluppo e aspirazioni frustrate, in un contesto di bisogni elementari e ambienti criminali di immediato riferimento ha lasciato anche al cinema una traccia che ormai la realtà dei fatti ha integrato, grazie anche al bianco e nero emblematico di Ciao bambino, realistico e chiaroscurale in tutti i sensi: indicativo cioè di una mescolanza di contrasti sopraggiunta a seguito di ulteriori e consolidate stratificazioni di immigrati; tanto da scomparire nella commistione la linea d’ombra tra residenti e stranieri, legalità e illegalità, spazio penale interno ed esterni liberamente vissuti, sussistenza e sfruttamento. Nel film d’esordio di Edgardo Pistone, che attinge a una tradizione, ma ne rilancia e riscrive le coordinate di base, la riflessione che è innanzitutto rappresentazione nasce da un dato aritmetico: due soggetti coetanei, di diversa provenienza come Attilio e Anastasia, uniti dalla vocale iniziale e iniziatica del nome proprio di persona, possono determinare un effetto moltiplicatore e non limitarsi a essere l’ennesima addizione problematica, ciascuno recando in dote un retroterra fin troppo ingrato e riconoscibile. Fare uno più una non basta, se tirare le somme per l’autore al suo primo lungometraggio sta a cuore un universo non automaticamente inchiodato agli stereotipi ma dinamico, fisico, formativo. Cinematograficamente parlando: compositivo, persino lirico.
(Anton Giulio Mancino)

Martedì 5 agosto ore 21.15

U.S. PALMESE

Italia, 2025
Regia Manetti bros.
Soggetto Manetti bros., Michelangelo La Neve
Sceneggiatura Manetti bros., Emiliano Rubbi, Luna Gualano
con Rocco Papaleo, Blaise Afonso, Giulia Maenza, Lisa Do Couto Teixeira, Max Mazzotta, con la partecipazione di Guillaume de Tonquedec e con Claudia Gerini
Fotografia Angelo Sorrentino
Montaggio Federico Maria Maneschi
Musica Pivio e Aldo De Scalzi
Scenografia Noemi Marchica
Costumi Ginevra De Carolis
Produzione Mompracem e Rai Cinema
Prodotto da Pier Giorgio Bellocchio, Manetti bros., Carlo Macchitella
Distribuzione 01 Distribution
Durata 120 minuti

Ospiti della serata
I registi Marco e Antonio Manetti


U.S. Palmese ha ottenuto 2 candidature ai Nastri d’Argento.

Sinossi

A Palmi, una piccola cittadina della Calabria, Don Vincenzo (Rocco Papaleo), geniale agricoltore in pensione, ha un’idea folle per risollevare la squadra di calcio locale: organizzare una bizzarra raccolta fondi per ingaggiare Etienne Morville (Blaise Afonso), giocatore di Serie A, dal pessimo carattere, ma tra i più forti al mondo. Seppure controvoglia, Morville lascerà Milano per trasferirsi a Palmi e provare a risanare la sua immagine. Qui si scontrerà con una realtà fatta di sincerità, che porterà tutti a vivere un’esperienza indimenticabile.

Ai fratelli Antonio e Marco Manetti, in arte Manetti Bros., i generi cinematografici stanno a cuore da sempre, specialmente se ripensati in una chiave di perpetua “rimessa in campo”. L’esperimento di U.S. Palmese infatti “gioca” in tutti i sensi la palla del riscatto duplice, tra nord e sud d’Italia o Italia e Francia: quella di una piccola comunità calabrese e di un campione che di emarginazione se ne intende, essendo cresciuto nelle banlieue. Il registro doppio del loro ultimo film riflette quindi da un lato la necessità drammaturgica, da fratelli, di concepire le vicende sulla base del numero due onnipresente, sintomatico dei personaggi o delle piste che i film seguono; dall’altro l’esigenza di scavalcare il “campo”, qui di calcio ma anche cinematografico a tempo indeterminato, acquisito con i film precedenti per sperimentarsi in uno completamente nuovo. Il film sportivo è dunque un ulteriore sconfinamento in una filmografia che ama rimettersi sempre “in gioco”, esplorando nuovi codici e linguaggi, geografie, forme e soprattutto generi. Non c’è mappa mentale che i Manetti Bros hanno innescato e che il puro piacere del testo obbliga a modificare in itinere, generando ulteriori commistioni e sfide “di campo”. Se il lessico calcistico si presta a un costante riuso filmico, spesso voluto, come negare a U.S. Palmese la volontà di portare alle estreme conseguenze, soprattutto nelle partite, il montaggio parallelo che è un altro sintomo inequivocabile del meccanismo binario su cui lavorano senza posa?
(Anton Giulio Mancino)

Mercoledì 6 agosto ore 21.15

L’ORO DEL RENO


Italia, 2025
Regia Lorenzo Pullega
Soggetto e sceneggiatura Federico Montevecchi, Lorenzo Pullega, Roberto Romagnoli
con Lorenzo Ansaloni, Rebecca Antonaci, Flavia Bakiu, Giorgio Comaschi e con la voce narrante di Neri Marcorè
Fotografia Alessandro Veridiani
Montaggio Ilaria Cimmino
Musica Marco Pedrazzi
Scenografia Miriam Scurato, Gianpietro Huber
Costumi Eva Arellano Martin
Produzione Mompracem e Rheingold Film in collaborazione con Rai Cinema
Prodotto da Pier Giorgio Bellocchio, Manetti bros. e da Roberto Romagnoli, Lorenzo Pullega, Federico Montevecchi
Distribuzione Europictures
Durata 92 minuti

Ospiti della serata
Il regista Lorenzo Pullega e Neri Marcorè (voce narrante)


L’oro del Reno ha vinto il premio per la Migliore regia al Bari International Film & TV Festival ed è stato in concorso al Film Festival di Rotterdam.

Sinossi

L’oro del Reno è la storia delle storie che si svolgono intorno un fiume, il Reno italiano. Il compito di viaggiare e testimoniare i racconti ambientati tra presente e passato lungo le sue sponde spetta a un regista che, incaricato da uno strambo circolo locale di realizzare un documentario, si mette in viaggio dalla sorgente alla foce del fiume, raccogliendo appunti e impressioni. A poco a poco, il piccolo viaggio intorno al fiume della sua a, infanzia, diverrà un cammino onirico ben più vasto nei racconti degli uomini, dove perdersi potrebbe significare ritrovarsi.

“Felliniano” non è un aggettivo improprio per quest’esordio molto intriso di Emilia-Romagna, a partire dal titolo che gioca con l’omonimo dramma inaugurale della tetralogia L’anello del Nibelungo di Richard Wagner. Lorenzo Pullega costruisce L’oro del Reno, “suo” in tutti i sensi, idrogeologici e culturali, infatti come un film in progress, un film sul film in corso d’opera dove l’autore resta volentieri invisibile, fuori campo, e funziona come pura voce o acusma, di Neri Marcorè. Sulla falsariga infatti di quelle opere aperte, metacinematografiche, care al corregionale Fellini, anche in questo caso la frammentazione è la regola e la linearità narrativa l’eccezione, sostituita dalla linea conduttrice del fiume. Gli appunti sparsi di cui è fatto apparentemente L’oro del Reno, con “loro”, senza apostrofo, ovvero “coloro” che “del Reno” sanno qualcosa, compongono disegno visionario preciso in cui il dato ambientale conta più della struttura tradizionale. Il vero protagonista della vicenda è dunque il fiume e gli episodi che si susseguono affiorano dalla sua superficie e agiscono in profondità. L’impianto è volutamente centrifugo, perché dimostra quanto la grandiosità wagneriana sia infine il sintomo ricorrente e transnazionale di un forte legame con le radici, ovunque nel mondo e comune a ogni epoca; ed è allo stesso tempo centripeto poiché tutta l’energia memoriale, mistica e sovrannaturale che il film di Pullega incorpora, assorbe e sprigiona tende a concentrarsi su una porzione ristretta di suolo nazionale.
(Anton Giulio Mancino)

Giovedì 7 agosto ore 21.15

ZAMORA


Italia, 2023
Regia Neri Marcorè
Soggetto e sceneggiatura Maurizio Careddu, Paola Mammini, Neri Marcorè, Alessandro Rossi,
liberamente ispirato a ZAMORA di Roberto Perrone
con Alberto Paradossi, Neri Marcorè, Marta Gastini, Anna Ferraioli Ravel, Walter Leonardi
Fotografia Duccio Cimatti
Montaggio Alessio Doglione
Musica Pacifico
Scenografia Francesca Bocca
Costumi Cristina Audisio
Produzione Pepito Produzioni con RAI Cinema
Prodotto da Agostino Saccà
Distribuzione 01 Distribution
Durata 100 minuti

Ospite della serata
Il regista Neri Marcorè


Per Zamora Neri Marcorè ha ricevuto la nomination come Miglior regista esordiente sia ai David di Donatello che ai Nastri d’Argento, mentre Anna Ferraioli Ravel è entrata tra le nomination come Miglior attrice non protagonista ai Nastri d’Argento

Sinossi

Il trentenne Walter Vismara conduce una vita ordinata e senza sorprese: ragioniere nell’animo prima ancora che di professione, lavora come contabile in una fabbrichetta di Vigevano. Da un giorno all’altro la fabbrica chiude e il Vismara si ritrova suo malgrado catapultato in un’azienda avveniristica della vitale e operosa Milano, al servizio di un imprenditore moderno e brillante, il cavalier Tosetto. Andrebbe tutto bene se non fosse che costui ha il pallino del folber (il football, secondo un neologismo di Gianni Brera) e obbliga tutti i suoi dipendenti a sfide settimanali scapoli contro ammogliati. Walter, che considera il calcio uno sport demenziale, si dichiara portiere solo perché è l’unico ruolo che conosce e non sa che da quel momento, per non perdere l’impiego, sarà costretto a partecipare agli allenamenti settimanali, in vista della partita ufficiale del primo maggio. Subisce così lo sfottò dei colleghi; tra questi, l’ingegner Gusperti lo ribattezza sarcasticamente “Zamora”, il fenomenale portiere spagnolo degli anni ‘30. Non solo quel bauscia lo umilia in campo e lo bullizza in azienda, ma tra lui e Ada, la segretaria di cui Walter si innamora, sembra esserci del tenero. Sentendosi umiliato, tradito da una parte e deriso dall’altra, il ragioniere escogita un piano del tutto originale per vendicarsi, coinvolgendo un ex-atleta ormai caduto in disgrazia. Nel calcio, come del resto nella vita, bisogna imparare a buttarsi e anche se perdi, ciò che conta è rialzarsi e ripartire più forti di prima.

L’universo lavorativo dove gli slanci vengono frustrati dai rapporti con i colleghi e la goffaggine sanzionata dai vertici, è un territorio fertile per Neri Marcorè, attore navigato, misurato e molto consapevole del proprio statuto di personaggio trasversale, lungo il difficile crinale tra il dramma e la commedia, pronto ad affiorare anche in veste di regista e per interposto protagonista. Donde l’esigenza di cercare una forma e un mood per dare corpo audiovisivo al romanzo omonimo del giornalista-scrittore Roberto Perrone che sulla pagina a quarant’anni di distanza, nel 2003, rievocava un mondo datato 1963. Raccontare da autore esordiente un passato denso di oggetti, segmenti comunicativi, indizi gravi, precisi e concordanti di un passaggio chiave del boom economico nel cuore della Lombardia significa cercare riferimenti a portata di mano, attingendo a un cineasta a lui vicino per averci lavorato in profondità, come Pupi Avati, quindi a un film come Impiegati in cui la mappa comportamentale fa da battistrada per Zamora; quindi mutuare dal primo Fantozzi di Luciano Salce e Paolo Villaggio il lato “gretto” del grigiore impiegatizio dentro il grottesco; infine l’universo umano e ambientale delineato da Ermanno Olmi ne Il posto. Da questo sistema di incroci a monte il Marcorè neo-regista ricava un amalgama originale, fatto di rapporto stretto con le origini e autonoma creazione di origini nuove.
(Anton Giulio Mancino)

Venerdì 8 agosto ore 21.15

IL TEMPO CHE CI VUOLE

Italia, 2023
Regia Francesca Comencini
Sceneggiatura Francesca Comencini
con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano, Anna Mangiocavallo, Luca Donini
Fotografia Luca Bigazzi
Montaggio Francesca Calvelli, Stefano Mariotti
Musica Fabio Massimo Capogrosso
Scenografia Paola Comencini
Costumi Daria Calvelli
Produzione Kavac Film con Rai Cinema, Les Films du Worso, IBC Movie, One Art
Prodotto da Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti
Distribuzione 01 Distribution
Durata 110 minuti

Ospiti della serata
La regista Francesca Comencini e gli attori Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano


Presentato Fuori Concorso all’81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Il tempo che ci vuole ha ottenuto 10 candidature e vinto 5 Nastri d’Argento come Miglior film, Miglior sceneggiatura (Francesca Comencini), Miglior attrice protagonista (Romana Maggiora Vergano), Miglior attore protagonista (Fabrizio Gifuni) e 6 candidature ai David di Donatello.

Sinossi

Un padre e sua figlia abitano le stanze dell’infanzia: l’infanzia di lei e l’infanzia magica del racconto di Pinocchio, il film al quale sta lavorando lui. Il padre racconta alla figlia del suo lavoro e la ascolta, la osserva, le parla con serietà, compostezza, rispetto, come si parlerebbe non a un’adulta ma a una persona intera sì, la persona che è una bambina. La bambina visita i set del padre, in cui pulsa la vita, il chiasso, l’umanità, il lavoro, l’affanno, l’infatuazione, la magia e il sudore. E lei si perde in quei mondi. La figlia diventa una ragazza, l’incanto di quel limbo tra loro svanisce, la figlia lo sente, capisce che la rottura con l’infanzia è irreparabile. Lo capisce da come il padre la guarda. Pensa che non sarà mai alla sua altezza e precipita apposta per non esserlo davvero. La figlia si droga e continua a tornare a casa cercando di fare finta di niente. Il padre all’inizio è disarmato, poi prende posizione e decide che non farà finta di niente. Smaschera la figlia, si affaccia su quell’abisso, con poche parole e molta presenza la porta via con sé, a Parigi.

Non è un film autobiografico in senso tradizionale Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, ma un’indagine a tutto campo sul rapporto tra genitori e figli, maschile e femminile, e che inevitabilmente si intreccia con il dato storiografico e cinematografico, ammesso che la storia del cinema possa dirsi altro dalla storia a largo spettro. Circoscrivere la rappresentazione al palcoscenico di casa, con due stanze cruciali unite da un corridoio che è anche un cordone ombelicale, vuol dire esplorare un “gruppo di famiglia in un interno” elementare dove lo spazio è inversamente proporzionale alle distanze, e remota a prima vista le possibilità di sciogliere conflitti, ricomporli, lasciarli decantare nel “tempo che ci vuole”, mietendo di contro anche l’effetto controproducente delle forzature. La messa a fuoco dinamica, elusiva e allusiva in questo film di Francesca Comencini che registra anche un conguaglio continuo con il metodo paterno dietro la macchina da presa, si fa arbitro di tensioni, possibilità e impossibilità complementari che si situano tra il dire e il non-dire ugualmente necessari. Urgente e significativo nel gioco di specchi, riflessioni e rifrazioni, il contesto esterno, tanto da giungere al punto di non ritorno del cortocircuito tra realtà e finzione che investe direttamente l’attore che interpreta l’autore del miglior Pinocchio cinematografico di sempre, Fabrizio Gifuni, il quale si interfaccia con le immagini di repertorio del cadavere ritrovato di Moro, genitore nobile e “costituente” della Repubblica nata dall’antifascismo, reincarnato in prima persona in teatro, quindi al cinema in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana ed Esterno notte di Marco Bellocchio.
(Anton Giulio Mancino)

Sabato 9 agosto ore 21.15

FUORI

Italia, 2025
Regia Mario Martone
Soggetto Ippolita Di Majo da Goliarda Sapienza
Sceneggiatura Mario Martone, Ippolita Di Majo
con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi
Fotografia Paolo Carnera
Montaggio Jacopo Quadri
Musica Valerio Vigliar
Scenografia Carmine Guarino
Costumi Loredana Buscemi
Produzione Indigo Film con RAI Cinema e The Apartment
Prodotto da Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Viola Prestieri, Annamaria Morelli
Distribuzione 01 Distribution
Durata 115 minuti

Ospiti della serata
Il regista Mario Martone e la sceneggiatrice Ippolita Di Majo


Fuori ha ottenuto 10 candidature e vinto 2 Nastri d’Argento con Valeria Golino, Miglior attrice protagonista e Matilda De Angelis ed Elodie, Migliori attrici non protagoniste. È stato presentato in concorso alla 77° edizione del Festival di Cannes.

Sinossi

Roma, 1980. La scrittrice Goliarda Sapienza finisce in carcere per aver rubato dei gioielli, ma l’incontro con alcune giovani detenute si rivela per lei un’esperienza di rinascita. Uscite di prigione, in una calda estate romana, le donne continuano a frequentarsi e Goliarda stringe un legame profondo con Roberta, delinquente abituale e attivista politica. Un rapporto che nessuno, fuori, può riuscire a comprendere ma grazie al quale Goliarda ritrova la gioia di vivere e la spinta a scrivere.

Dedicarsi in Fuori, tra carcere e scarcerazione come sintomo di una libertà relativa, a una porzione della biografia di Goliarda Sapienza, tra autobiografia letteraria o autoanalisi narrata, aggiunge una riflessione con effetto genealogico nel cinema di Mario Martone. Con Fuori fa i conti con l’insieme delle “sue” biografie filmiche, che definire biopic nell’accezione corrente sarebbe improprio. Non si limita a fornire un altro tassello di tipo biografico sui generis al personale mosaico d’autore, ma rende il personaggio femminile rappresentato la chiave autoreferenziale per ragionare e interrogarsi sul senso con cui una vita si fa cinema; più di quanto possa riuscirvi una vicenda completamente immaginaria o restituita attraverso il gioco della finzione. In Fuori il gioco si fa scoperto e assume definitivamente un’identità di donna forte e transitiva dal perimetro carcerario a quello di un affrancamento ugualmente perimetrato e contraddittorio, condizionato e complesso. La coralità di soggetti compresi nel proprio gender, congiunti e per molti versi sovrapponibili, come in un quadro cubista, offre un effetto plastico: la combinazione dei tre nudi nella scena sotto la doccia o l’uso altrove di sovraimpressioni ad hoc. Tutto ciò consente al Martone più cinematografico di esprimersi specchiandosi in un corpo moltiplicato e persistente da cui ricavare l’esame del presente che gli sta particolarmente a cuore con effetto retroattivo.
(Anton Giulio Mancino)

Domenica 10 agosto ore 21.15

CAMPO DI BATTAGLIA

Italia, 2024
Regia Gianni Amelio
Soggetto Gianni Amelio liberamente ispirato a “La sfida” di Carlo Patriarca (Beatbestseller)
Sceneggiatura Gianni Amelio
con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, Federica Rosellini, Giovanni Scotti
Fotografia Luan Amelio Ujkaj
Montaggio Simona Paggi
Musica Franco Piersanti
Scenografia Beatrice Scarpato
Costumi Luca Castigliolo
Produzione Kavac Film, Ibc Movie, One Art con RAI Cinema
Prodotto da Simone Gattoni, Marco Bellocchio, Beppe Caschetto, Bruno Benetti
Distribuzione 01 Distribution
Durata 104 minuti

Ospite della serata
Il regista Gianni Amelio


Presentato in Concorso all’81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Campo di battaglia ha ottenuto 3 candidature ai Nastri d’Argento e 3 candidature ai David di Donatello.

Sinossi

Sul finire della Prima guerra mondiale, due ufficiali medici, amici d’infanzia lavorano nello stesso ospedale militare, dove ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Molti di loro però si sono procurati da soli le ferite, sono dei simulatori, che farebbero di tutto per non tornare a combattere. Stefano, di famiglia altoborghese, è ossessionato da questi autolesionisti e, oltre che il medico, fa a suo modo lo sbirro. Giulio, apparentemente più comprensivo e tollerante, non si trova a proprio agio alla vista del sangue, è più portato verso la ricerca, avrebbe voluto diventare un biologo. Anna, amica di entrambi dai tempi dell’università, sconta il fatto di essere donna. A quei tempi, senza una famiglia influente alle spalle, era difficile arrivare a una laurea in medicina. Ma lei affronta con grinta un lavoro duro e volontario alla Croce Rossa. Qualcosa di strano accade, intanto, tra i malati: molti si aggravano misteriosamente. Forse c’è qualcuno che provoca di proposito delle complicazioni, perché i soldati vengano mandati a casa, anche storpi, anche mutilati, purché non tornino in battaglia. C’è dunque un sabotatore nell’ospedale, di cui Anna è la prima a sospettare. Ma sul fronte di guerra, proprio verso la fine del conflitto, si diffonde una specie di infezione che colpisce più delle armi nemiche. E presto contagia anche la popolazione civile…

Nell’ultimo affresco storico e morale di Gianni Amelio la battuta «Qui non muore nessuno», passa di bocca in bocca paradossalmente. Chiunque conosca profondamente l’intera sua opera coglie immediatamente in questa parabola commovente e straziante a un tempo, di feriti e moribondi che provano a sfuggire alla una morte pianificata da palazzi lindi e imponenti, l’intransigenza dello sguardo. Chi è seduto in sala, chiamato a interrogarsi sul campo bellico unitamente al campo filmico, rifugge di proposito lo spettacolo bellico e insiste sull’antropologia sociale e la geografia umana dei combattenti o dei loro medici/carnefici. E il primo piano collettivo alla fine de Lamerica si trasforma in Campo di battaglia in sigillo di stile inteso come umanesimo applicato. Non c’è (s)campo tra camici bianchi per i quali medicare significa per ordini dall’alto reindirizzare alla guerra. I misfatti umani, gerarchizzati e di classe, le opere e soprattutto le omissioni sul piano scientifico e informativo in materia di salute pubblica, preludono al male trasversale che colpisce indiscriminatamente, dalla Febbre spagnola al Coronavirus. Coniugando l’eccidio virale a quello disumano in battaglia, Amelio qui conferma il paradosso di quella che fu denominata la “Grande” guerra, tale finché, a decorrere tragicamente dalla Seconda, ha subito una numerazione crudele e retrocessa a “Prima” guerra mondiale, incapace di insegnare alle generazioni future la lezione di una “grande” e irripetibile oscenità collettiva.
(Anton Giulio Mancino)

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