TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
"DE INFINITO UNIVERSO"
DI FILIPPO FERRARESI
Debutta in prima nazionale, sabato 29 gennaio (ore 19.30), al Teatro Studio Melato, De infinito universo di Filippo Ferraresi, alla sua prima prova come regista di uno spettacolo del Piccolo Teatro di Milano (una coproduzione internazionale con il Théâtre National Wallonie-Bruxelles).
Classe 1985, una consolidata esperienza, in Italia e all’estero, al fianco di Franco Dragone, Fabrice Murgia e, dal 2018, Romeo Castellucci, Filippo Ferraresi scrive e dirige un’opera di teatro “transdisciplinare”, ispirata al pensiero di Giordano Bruno. L’infinita grandezza dell’universo è messa a confronto con il confine più ristretto della dimensione umana. Che senso hanno le nostre vite, di fronte all’immensità? Tre differenti prospettive per un tentativo di risposta: la scienza, la natura, la politica. Un dialogo tra linguaggi differenti in reciproca contaminazione. Lo spettacolo, interpretato da Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi, con le scene di Guido Buganza, i costumi di Giada Masi, le luci di Claudio De Pace e le musiche di Lucio Leonardi (PLUHM), è in scena fino al 13 febbraio.
Uno scienziato racconta al pubblico che cosa siano la materia oscura e l’energia oscura; contemplando il cielo di notte, un pastore di leopardiana memoria si smarrisce di fronte al pensiero dell’infinito; una giovane donna, assistente di una potente figura politica femminile, immagina un discorso che vorrebbe rivolgerle, deplorando la mancanza di una visione più elevata in chi ci governa. Ispirandosi a Giordano Bruno, Filippo Ferraresi porta in teatro la grandezza e il mistero di domande universali, alle quali è impossibile trovare risposta, contrapponendole alla dimensione, intima e privata, dell’essere umano. In uno spettacolo di teatro “transdisciplinare”, che intreccia recitazione e tecnologia, acrobatica ed effetti teatrali, l’autore e regista racconta lo smarrimento e lo stupore dell’uomo di fronte alle leggi della fisica e alle sue “macchine meravigliose”.
Come la scienza accentua il nostro sgomento, di fronte a concetti che la mente non riesce ad abbracciare, la poesia tenta di governare quello stesso abisso attraverso la forza delle parole, mentre alla politica spetterebbe il compito di pensare al bene dell’individuo, di coglierlo nella sua complessità, senza appiattirsi sulle mere leggi dell’economia e della finanza. La scena rappresenta un castelletto conchiuso in se stesso che evoca al contempo l’esterno di un maniero e l’interno della sua corte a pianta quadrata. La scenografia si ispira direttamente a un’illustrazione di Robert Fludd di inizio ‘600, che lui stesso chiamò “teatro della memoria”, luogo simbolico che accoglie e organizza in un sistema mnemonico d’immagini l’universo nella sua interezza.
Tratto dominante dei nostri tempi, distesi fin dagli albori del Novecento sulla smisurata scala del “villaggio globale”, è la complessità. Con De infinito universo, Filippo Ferraresi ci conduce in una delle avventure più affascinanti del pensiero umano: tentare di abbracciare la multiforme e sempre sfuggente realtà in cui viviamo nei suoi siderali confini, per conoscere l’Universo come un tutto, nella consapevolezza che noi stessi siamo parte di esso e dunque incarniamo lo sforzo di una porzione del Cosmo che cerca di osservare e analizzare sé stesso. Grazie all’ingegnoso dispositivo scenico di Guido Buganza, e alla straniante fusione di recitazione (Elena Rivoltini e Gabriele Portoghese) e movimenti acrobatici (Jérémy Juan Willi), la potenza e il mistero di domande dal valore assoluto dialogano con la dimensione, intima e privata, dell’essere umano. Un doppio movimento contraddistingue lo spettacolo che vive di un respiro genuinamente “filosofico”: alla ineludibile consapevolezza che il Mondo è consegnato ab origine alla sua fine si accompagna l’esplorazione di un universo infinito e in continua espansione. In questo modo, la creazione di Ferraresi trova in ultimo il suo correlativo oggettivo nell’icastica metafora del filo dell’orizzonte. Come nell’omonimo racconto poliziesco di Antonio Tabucchi, infatti, il futuro, e la verità che ne consegue, sono circoscritti da un cerchio (solo apparentemente) concluso che si fa però «luogo geometrico, perché si sposta mentre noi ci spostiamo».
Claudio Longhi
Direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
L'impegno del Théâtre National Wallonie-Bruxelles nella produzione di De Infinito universo di Filippo Ferraresi è di buon auspicio, spero, per una bella collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa intorno alla creazione teatrale italiana e belga di lingua francese. In un momento in cui la solidarietà sta svanendo, in cui il nostro settore è sotto attacco, cosa potrebbe essere più essenziale che sostenere, su scala europea, le artiste e gli artisti emergenti, portatrici e portatori di originalità, ambasciatrici e ambasciatori della Cultura di domani.
Pierre Thys Direttore generale e artistico del Théâtre National Wallonie-Bruxelles
L’infinito a teatro
conversazione con Filippo Ferraresi
(dal programma di sala dello spettacolo, a cura dell’Ufficio Edizioni del piccolo Teatro di Milano)
- Filippo Ferraresi, De infinito universo è la tua prima prova come regista di una messinscena teatrale, a coronamento di un lungo percorso. Ce lo riassumi brevemente?
Il mio percorso artistico si fonda su tre grandi pilastri. Il primo è la formazione universitaria, che è iniziata con una laurea al DAMS di Roma ed è proseguita a Parigi, alla Sorbona, per un dottorato di ricerca: mi sono accostato al teatro studiandone la storia e gli autori ma anche l’evoluzione dello spazio scenico.
Il secondo passaggio fondamentale è il periodo trascorso presso la compagnia del regista italo belga Franco Dragone, uno dei fondatori del Cirque du Soleil. Nei dieci anni con questo artista, ho realizzato spettacoli in tutto il mondo; mi sono confrontato con produzioni molto diverse tra loro per lingua, cultura e mezzi produttivi, fino all’ultima, di cui ero direttore della creazione, allestita a Dubai nel 2017.
Il mio percorso artistico si fonda su tre grandi pilastri. Il primo è la formazione universitaria, che è iniziata con una laurea al DAMS di Roma ed è proseguita a Parigi, alla Sorbona, per un dottorato di ricerca: mi sono accostato al teatro studiandone la storia e gli autori ma anche l’evoluzione dello spazio scenico.
Il secondo passaggio fondamentale è il periodo trascorso presso la compagnia del regista italo belga Franco Dragone, uno dei fondatori del Cirque du Soleil. Nei dieci anni con questo artista, ho realizzato spettacoli in tutto il mondo; mi sono confrontato con produzioni molto diverse tra loro per lingua, cultura e mezzi produttivi, fino all’ultima, di cui ero direttore della creazione, allestita a Dubai nel 2017.
Questa esperienza mi ha fornito una conoscenza approfondita del mezzo teatrale in tutti i passaggi che stanno dietro alla costruzione di uno spettacolo, a partire dalla scrittura del copione, fino al giorno del debutto.
Il terzo, grande pilastro della mia formazione è Romeo Castellucci, di cui sono assistente alla regia dal 2017: la sua poetica è stata per me una folgorazione già ai tempi dell’università, quando, a Cesena, vidi un suo spettacolo intitolato Bruxelles e ne ebbi uno shock visivo e sensoriale che cambiò definitivamente il mio modo di vedere il teatro.
Gli anni di questo lunghissimo apprendistato, in cui ho vissuto esperienze così diverse, senza aver fretta di mettermi alla prova come regista, mi hanno condotto a una forma, se non nuova, ibrida, transdisciplinare, che intreccia le componenti testuale, visiva e corporea del teatro. De infinito universo, che ho scritto di getto nel periodo del lockdown, è l’approdo di questo mio vissuto artistico. Alla scrittura sono seguiti i contatti con alcuni direttori di teatro, primo fra tutti Claudio Longhi, poi Fabrice Murgia, allora direttore del Théâtre National de Bruxelles, che con il loro interesse e sostegno hanno reso possibile trovarci oggi qui.
- Qual è la struttura dello spettacolo?
De infinito universo è composto da tre monologhi. Nel primo di questi testi, un astrofisico, guidandoci attraverso un viaggio cosmico, ci parla dei misteri dell’universo, del quale ci fa intravedere la fine.
È un momento che nessuno di noi vivrà, ma non per questo appare meno agghiacciante e terrificante: la scienza dice che la fine dell’universo consisterà nel progressivo allontanamento tra i corpi celesti, che si raffredderanno. Il sole e le stelle si spegneranno in un eterno buio: se, paradossalmente, fossimo ancora presenti, ci troveremmo in una situazione in cui nessuna interazione sarebbe più possibile. L’astrofisico lo racconta dal punto di vista della scienza, interrogandosi sul senso di questa parabola, senza poter fornire alcuna risposta al senso della fine.
Il cuore del secondo monologo è il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, la lirica in cui Giacomo Leopardi esplora, attraverso la poesia, lo stesso tema che l’astrofisico ci aveva illustrato dal punto di vista scientifico: lo smarrimento dell’uomo di fronte all’immensità. La relazione tra i due monologhi, come anche tra quello del pastore e il successivo, è data dallo spazio, il castelletto, ispirato a un’illustrazione del Cinquecento di Robert Fludd. È una scena carica di segni e di simboli che, come in un certo linguaggio cinematografico, non spiegano nulla, ma consegnano alcune immagini allo spettatore.
Il terzo momento dello spettacolo è affidato a una donna giovane ma matura per formazione e comprensione della vita, da cui è stata già messa alla prova. Ho voluto che lo spettacolo si concludesse con un personaggio femminile perché sono molto affezionato alla dimensione del matriarcato, al sapere intimo e profondissimo che contiene e che si tramanda attraverso le generazioni. Nella finzione, il personaggio è l’assistente di un grande capo politico contemporaneo, Ursula von der Leyen, alla quale scrive una lettera immaginaria, molto provocatoria, sottolineando il bisogno – e la mancanza – di una classe politica che abbia un’idea chiara del senso della vita: nel lungo periodo di grande fragilità che stiamo attraversando, dove valori antichi sono venuti meno e facciamo fatica a trovare come sostituirli, sta alla politica ripensare le proprie intenzioni. Gli studi e i sondaggi condotti quotidianamente sulla popolazione mirano esclusivamente a verificarne le condizioni economiche, in nome di una presunta eguaglianza di censo, che siamo peraltro lontanissimi dall’aver raggiunto. L’aspirazione a una reale parità di tipo filosofico e spirituale, l’attenzione al benessere sociale e morale risulta oggi irrimediabilmente perduta: il nostro personaggio, una ragazza, pone questa istanza a un grande politico di oggi, un’altra donna, in un monologo che non avrà risposte.
- Accennavi poco fa alla scena e alla sua ispirazione. Ci parli più approfonditamente anche di tutte le altre componenti che concorrono a tessere l’impianto visivo e sonoro dello spettacolo?
I tre personaggi sono immersi in un grande affresco visuale perché era per me molto importante che lo spettacolo avesse due piani distinti e concatenati di uguale potenza, l’aspetto testuale e quello visivo. La scenografia, che ho pensato insieme a Guido Buganza, è ispirata a un’illustrazione del Cinquecento dell’alchimista Robert Fludd e simboleggia “il teatro della memoria”. È la rappresentazione del tentativo utopistico degli uomini del Rinascimento di racchiudere tutto il sapere umano in un luogo e in uno spazio, in un’epoca di profonde trasformazioni, in cui i lunghi secoli dominati dal sapere della scolastica aristotelica stavano per essere soppiantati dalle grandi rivoluzioni scientifiche. Grazie a Copernico, l’uomo scopre di avere per secoli creduto il falso e che il centro dell’universo non è più la Terra. Con Giordano Bruno, che è ancora più rivoluzionario di Copernico, andiamo oltre: la Terra non è il centro, perché questo non esiste. Qualunque individuo, essere vivente, o oggetto può rappresentare un centro. Volevo inoltre fortemente tornare a un teatro di macchine, di botole di legno, di entrate e uscite, di nascondigli, barocco nella sua macchineria, ma anche molto contemporaneo, per l’uso delle luci e per la ricerca di materiali nuovi: attraverso il mezzo teatrale, vorrei creare immagini, perché lo spettatore abbia la possibilità di vedere qualcosa che non ritrova nella quotidianità, immagini forti, anche spaventose, che facciano da corollario al testo e ne completino la percezione. In questo impianto visivo, in una scena monocromatica, i costumi – ideati con Giada Masi – si impongono come delle macchie di colore. Per il suono, ho cercato un compositore di musica elettronica, Lucio Leonardi, in arte PLUHM, che ci porta in un’atmosfera completamente immersiva, dove il suono ha un peso analogo a quello della parola. Per quanto riguarda le luci, penso che sia stata una vera impresa: illuminare questa “scatola” tentando di trasformarla, e allo stesso tempo cercare di crea tre scenari completamente differenti si è rivelata un’operazione di precisione assoluta, possibile grazie all’aiuto di Claudio De Pace.
- Due attori e un acrobata. Perché questa scelta e come hai lavorato con gli interpreti?
Lo scorso anno ho visto Gabriele Portoghese in scena in due spettacoli e non ho avuto dubbi che fosse lui l’attore che stavo cercando: per come si muove in scena, alternando registri molto classici a una proposta contemporanea, è un performer totale, al livello dei grandi palcoscenici europei. Peraltro, il suo ruolo è doppio, dal momento che impersona sia l’astrofisico, sia il pastore. Elena Rivoltini ha un ruolo importante, perché il suo è l’ultimo capitolo dello spettacolo, e, in qualche modo, in quel momento tutto precipita. Ha la responsabilità, nella sua potenza e nella sua fragilità, di un congedo: con lei, approfittando della sua preparazione musicale, abbiamo lavorando molto sul canto. A tutti ho chiesto di esprimersi con grande libertà e spirito di proposta. Prima di iniziare le prove, non sapevo bene chi fossero i tre personaggi, né come rappresentarli: nella creazione di uno spettacolo, la mia idea deve sempre incontrare la verifica del palcoscenico, perché solo mettendolo in scena posso valutare come funziona un personaggio, quale sia la qualità dei suoi movimenti, l’intonazione della parola o come il corpo dell’attore che lo interpreta reagisca all’interno di un costume. Spesso le intenzioni vengono smentite nel corso delle prove e non bisogna resistere a queste epifanie, anzi occorre accoglierle con grande umiltà e apertura. Credo nel miracolo del palco, nella ricerca di soluzioni nuove, che non avevo considerato prima, che scaturiscono dall’intrecciarsi e dallo scontrarsi delle forme nel corso delle prove. I due personaggi di Gabriele subiscono il forte vincolo del testo, soprattutto il pastore, che si esprime con le parole di Leopardi di inarrivabile altezza: a lui posso solo dire come non deve essere il suo personaggio, cioè sentimentale o impaurito.
In generale, incoraggio gli attori a trovare nelle pieghe del testo un’intuizione, movimenti, forme, e accolgo la sfida di armonizzarli, indicando loro come bilanciare o sbilanciare il palco, per fare in modo che si posizionino in un punto in cui la loro parola risuoni potenziata, non solo a livello sonoro, ma anche in termini di impatto visivo.
A Jérémy Juan Willi è per me ancora più difficile dare indicazioni, dal momento che non sono un coreografo né un acrobata: è lui a propormi dei movimenti che poi, insieme, definiamo. Lo scopo è che si inserisca nei tre monologhi portandovi una dimensione totalmente fisica, quasi fosse un monaco votato al silenzio che, con il suo movimento estremo, la sfida alle leggi della gravità, staccandosi dal terreno e guadagnando delle altezze, ci fa vedere come la ricerca e l’anelito all’infinito degli altri personaggi possano esprimersi anche attraverso il corpo. È la ricerca di un gesto sempre più asciutto, lo definirei “di fallimento”, nel continuo tendere verso l’alto per poi sempre, inesorabilmente, tornare a terra, alla dimensione in cui siamo tutti intrappolati.
Filippo Ferraresi è nato a Roma nel 1985 e vive a Bruxelles. Si laurea in Scienze dello Spettacolo all'Università di Roma con una tesi su Majakovskij e la sua opera letteraria per il teatro e il circo. Svolge un dottorato all'Università Sorbona di Parigi, conducendo una ricerca sugli spettacoli shakespeariani dei circhi parigini dell’800. Dal 2012 collabora con il regista e produttore Franco Dragone, co-fondatore del Cirque du Soleil, come regista assistente di spettacoli di grandi dimensioni in tutto il mondo e sarà direttore creativo dello spettacolo permanente La Perle, concepito per 2000 spettatori, con 60 performer in scena. Sempre con Dragone è assistente alla direzione artistica del Napoli Teatro Festival 2016. Nel 2014 e nel 2015 collabora con Fabrice Murgia, direttore del Théâtre National de Bruxelles, nella conduzione di laboratori alla Biennale Teatro di Venezia e, sempre con Murgia, è assistente alla regia di due opere liriche: Il palazzo incantato di Luigi Rossi all'opera di Digione, e Schauspieldirektor di Mozart per La Monnaie di Bruxelles. Dal 2018 è assistente alla regia di Romeo Castellucci per le sue creazioni teatrali e operistiche internazionali. Nel 2020 scrive e realizza per Rai Radio3 un radiodramma originale sull'arte nell’era paleolitica, intitolato Nella caverna. Questo spettacolo, De infinito universo, rappresenta il suo debutto assoluto nell’ideazione e nella regia di un lavoro teatrale.
Il terzo, grande pilastro della mia formazione è Romeo Castellucci, di cui sono assistente alla regia dal 2017: la sua poetica è stata per me una folgorazione già ai tempi dell’università, quando, a Cesena, vidi un suo spettacolo intitolato Bruxelles e ne ebbi uno shock visivo e sensoriale che cambiò definitivamente il mio modo di vedere il teatro.
Gli anni di questo lunghissimo apprendistato, in cui ho vissuto esperienze così diverse, senza aver fretta di mettermi alla prova come regista, mi hanno condotto a una forma, se non nuova, ibrida, transdisciplinare, che intreccia le componenti testuale, visiva e corporea del teatro. De infinito universo, che ho scritto di getto nel periodo del lockdown, è l’approdo di questo mio vissuto artistico. Alla scrittura sono seguiti i contatti con alcuni direttori di teatro, primo fra tutti Claudio Longhi, poi Fabrice Murgia, allora direttore del Théâtre National de Bruxelles, che con il loro interesse e sostegno hanno reso possibile trovarci oggi qui.
- Qual è la struttura dello spettacolo?
De infinito universo è composto da tre monologhi. Nel primo di questi testi, un astrofisico, guidandoci attraverso un viaggio cosmico, ci parla dei misteri dell’universo, del quale ci fa intravedere la fine.
È un momento che nessuno di noi vivrà, ma non per questo appare meno agghiacciante e terrificante: la scienza dice che la fine dell’universo consisterà nel progressivo allontanamento tra i corpi celesti, che si raffredderanno. Il sole e le stelle si spegneranno in un eterno buio: se, paradossalmente, fossimo ancora presenti, ci troveremmo in una situazione in cui nessuna interazione sarebbe più possibile. L’astrofisico lo racconta dal punto di vista della scienza, interrogandosi sul senso di questa parabola, senza poter fornire alcuna risposta al senso della fine.
Il cuore del secondo monologo è il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, la lirica in cui Giacomo Leopardi esplora, attraverso la poesia, lo stesso tema che l’astrofisico ci aveva illustrato dal punto di vista scientifico: lo smarrimento dell’uomo di fronte all’immensità. La relazione tra i due monologhi, come anche tra quello del pastore e il successivo, è data dallo spazio, il castelletto, ispirato a un’illustrazione del Cinquecento di Robert Fludd. È una scena carica di segni e di simboli che, come in un certo linguaggio cinematografico, non spiegano nulla, ma consegnano alcune immagini allo spettatore.
Il terzo momento dello spettacolo è affidato a una donna giovane ma matura per formazione e comprensione della vita, da cui è stata già messa alla prova. Ho voluto che lo spettacolo si concludesse con un personaggio femminile perché sono molto affezionato alla dimensione del matriarcato, al sapere intimo e profondissimo che contiene e che si tramanda attraverso le generazioni. Nella finzione, il personaggio è l’assistente di un grande capo politico contemporaneo, Ursula von der Leyen, alla quale scrive una lettera immaginaria, molto provocatoria, sottolineando il bisogno – e la mancanza – di una classe politica che abbia un’idea chiara del senso della vita: nel lungo periodo di grande fragilità che stiamo attraversando, dove valori antichi sono venuti meno e facciamo fatica a trovare come sostituirli, sta alla politica ripensare le proprie intenzioni. Gli studi e i sondaggi condotti quotidianamente sulla popolazione mirano esclusivamente a verificarne le condizioni economiche, in nome di una presunta eguaglianza di censo, che siamo peraltro lontanissimi dall’aver raggiunto. L’aspirazione a una reale parità di tipo filosofico e spirituale, l’attenzione al benessere sociale e morale risulta oggi irrimediabilmente perduta: il nostro personaggio, una ragazza, pone questa istanza a un grande politico di oggi, un’altra donna, in un monologo che non avrà risposte.
- Accennavi poco fa alla scena e alla sua ispirazione. Ci parli più approfonditamente anche di tutte le altre componenti che concorrono a tessere l’impianto visivo e sonoro dello spettacolo?
I tre personaggi sono immersi in un grande affresco visuale perché era per me molto importante che lo spettacolo avesse due piani distinti e concatenati di uguale potenza, l’aspetto testuale e quello visivo. La scenografia, che ho pensato insieme a Guido Buganza, è ispirata a un’illustrazione del Cinquecento dell’alchimista Robert Fludd e simboleggia “il teatro della memoria”. È la rappresentazione del tentativo utopistico degli uomini del Rinascimento di racchiudere tutto il sapere umano in un luogo e in uno spazio, in un’epoca di profonde trasformazioni, in cui i lunghi secoli dominati dal sapere della scolastica aristotelica stavano per essere soppiantati dalle grandi rivoluzioni scientifiche. Grazie a Copernico, l’uomo scopre di avere per secoli creduto il falso e che il centro dell’universo non è più la Terra. Con Giordano Bruno, che è ancora più rivoluzionario di Copernico, andiamo oltre: la Terra non è il centro, perché questo non esiste. Qualunque individuo, essere vivente, o oggetto può rappresentare un centro. Volevo inoltre fortemente tornare a un teatro di macchine, di botole di legno, di entrate e uscite, di nascondigli, barocco nella sua macchineria, ma anche molto contemporaneo, per l’uso delle luci e per la ricerca di materiali nuovi: attraverso il mezzo teatrale, vorrei creare immagini, perché lo spettatore abbia la possibilità di vedere qualcosa che non ritrova nella quotidianità, immagini forti, anche spaventose, che facciano da corollario al testo e ne completino la percezione. In questo impianto visivo, in una scena monocromatica, i costumi – ideati con Giada Masi – si impongono come delle macchie di colore. Per il suono, ho cercato un compositore di musica elettronica, Lucio Leonardi, in arte PLUHM, che ci porta in un’atmosfera completamente immersiva, dove il suono ha un peso analogo a quello della parola. Per quanto riguarda le luci, penso che sia stata una vera impresa: illuminare questa “scatola” tentando di trasformarla, e allo stesso tempo cercare di crea tre scenari completamente differenti si è rivelata un’operazione di precisione assoluta, possibile grazie all’aiuto di Claudio De Pace.
- Due attori e un acrobata. Perché questa scelta e come hai lavorato con gli interpreti?
Lo scorso anno ho visto Gabriele Portoghese in scena in due spettacoli e non ho avuto dubbi che fosse lui l’attore che stavo cercando: per come si muove in scena, alternando registri molto classici a una proposta contemporanea, è un performer totale, al livello dei grandi palcoscenici europei. Peraltro, il suo ruolo è doppio, dal momento che impersona sia l’astrofisico, sia il pastore. Elena Rivoltini ha un ruolo importante, perché il suo è l’ultimo capitolo dello spettacolo, e, in qualche modo, in quel momento tutto precipita. Ha la responsabilità, nella sua potenza e nella sua fragilità, di un congedo: con lei, approfittando della sua preparazione musicale, abbiamo lavorando molto sul canto. A tutti ho chiesto di esprimersi con grande libertà e spirito di proposta. Prima di iniziare le prove, non sapevo bene chi fossero i tre personaggi, né come rappresentarli: nella creazione di uno spettacolo, la mia idea deve sempre incontrare la verifica del palcoscenico, perché solo mettendolo in scena posso valutare come funziona un personaggio, quale sia la qualità dei suoi movimenti, l’intonazione della parola o come il corpo dell’attore che lo interpreta reagisca all’interno di un costume. Spesso le intenzioni vengono smentite nel corso delle prove e non bisogna resistere a queste epifanie, anzi occorre accoglierle con grande umiltà e apertura. Credo nel miracolo del palco, nella ricerca di soluzioni nuove, che non avevo considerato prima, che scaturiscono dall’intrecciarsi e dallo scontrarsi delle forme nel corso delle prove. I due personaggi di Gabriele subiscono il forte vincolo del testo, soprattutto il pastore, che si esprime con le parole di Leopardi di inarrivabile altezza: a lui posso solo dire come non deve essere il suo personaggio, cioè sentimentale o impaurito.
In generale, incoraggio gli attori a trovare nelle pieghe del testo un’intuizione, movimenti, forme, e accolgo la sfida di armonizzarli, indicando loro come bilanciare o sbilanciare il palco, per fare in modo che si posizionino in un punto in cui la loro parola risuoni potenziata, non solo a livello sonoro, ma anche in termini di impatto visivo.
A Jérémy Juan Willi è per me ancora più difficile dare indicazioni, dal momento che non sono un coreografo né un acrobata: è lui a propormi dei movimenti che poi, insieme, definiamo. Lo scopo è che si inserisca nei tre monologhi portandovi una dimensione totalmente fisica, quasi fosse un monaco votato al silenzio che, con il suo movimento estremo, la sfida alle leggi della gravità, staccandosi dal terreno e guadagnando delle altezze, ci fa vedere come la ricerca e l’anelito all’infinito degli altri personaggi possano esprimersi anche attraverso il corpo. È la ricerca di un gesto sempre più asciutto, lo definirei “di fallimento”, nel continuo tendere verso l’alto per poi sempre, inesorabilmente, tornare a terra, alla dimensione in cui siamo tutti intrappolati.
Filippo Ferraresi è nato a Roma nel 1985 e vive a Bruxelles. Si laurea in Scienze dello Spettacolo all'Università di Roma con una tesi su Majakovskij e la sua opera letteraria per il teatro e il circo. Svolge un dottorato all'Università Sorbona di Parigi, conducendo una ricerca sugli spettacoli shakespeariani dei circhi parigini dell’800. Dal 2012 collabora con il regista e produttore Franco Dragone, co-fondatore del Cirque du Soleil, come regista assistente di spettacoli di grandi dimensioni in tutto il mondo e sarà direttore creativo dello spettacolo permanente La Perle, concepito per 2000 spettatori, con 60 performer in scena. Sempre con Dragone è assistente alla direzione artistica del Napoli Teatro Festival 2016. Nel 2014 e nel 2015 collabora con Fabrice Murgia, direttore del Théâtre National de Bruxelles, nella conduzione di laboratori alla Biennale Teatro di Venezia e, sempre con Murgia, è assistente alla regia di due opere liriche: Il palazzo incantato di Luigi Rossi all'opera di Digione, e Schauspieldirektor di Mozart per La Monnaie di Bruxelles. Dal 2018 è assistente alla regia di Romeo Castellucci per le sue creazioni teatrali e operistiche internazionali. Nel 2020 scrive e realizza per Rai Radio3 un radiodramma originale sull'arte nell’era paleolitica, intitolato Nella caverna. Questo spettacolo, De infinito universo, rappresenta il suo debutto assoluto nell’ideazione e nella regia di un lavoro teatrale.
Gli incontri
Lunedì 7 febbraio, alle ore 21, al Civico Planetario Ulrico Hoepli di Milano, astrofisica e cosmologia incontrano il teatro in una conferenza che parte dalla scena per affrontare alcuni degli aspetti più affascinanti dell’universo. Una lezione-racconto, dal titolo “Palcoscenico Planetario”, impreziosita dalle letture di Gabriele Portoghese, interprete dello spettacolo. Con il contributo del conservatore del Planetario, Fabio Peri e in collaborazione con Comune di Milano.
Martedì 8 febbraio, alle ore 17.30, al Teatro Studio, Paolo Giordano offre il proprio sguardo di scrittore e fisico a una conversazione con Filippo Ferraresi sui differenti linguaggi che dialogano e si contaminano sulla scena di De infinito universo.
Info e prenotazioni piccoloteatro.org
Piccolo Teatro Studio Melato (Via Rivoli, 6 – M2 Lanza)
dal 29 gennaio al 13 febbraio 2022
De infinito universo
testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
scene Guido Buganza
costumi Giada Masi
luci Claudio De Pace
musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30;
domenica, ore 16. Lunedì, riposo.
Durata: un’ora e 15 minuti
Le repliche di sabato 29 gennaio e del 1, 5, 8 e 12 febbraio saranno sovratitolate in lingua inglese
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org
Lunedì 7 febbraio, alle ore 21, al Civico Planetario Ulrico Hoepli di Milano, astrofisica e cosmologia incontrano il teatro in una conferenza che parte dalla scena per affrontare alcuni degli aspetti più affascinanti dell’universo. Una lezione-racconto, dal titolo “Palcoscenico Planetario”, impreziosita dalle letture di Gabriele Portoghese, interprete dello spettacolo. Con il contributo del conservatore del Planetario, Fabio Peri e in collaborazione con Comune di Milano.
Martedì 8 febbraio, alle ore 17.30, al Teatro Studio, Paolo Giordano offre il proprio sguardo di scrittore e fisico a una conversazione con Filippo Ferraresi sui differenti linguaggi che dialogano e si contaminano sulla scena di De infinito universo.
Info e prenotazioni piccoloteatro.org
Piccolo Teatro Studio Melato (Via Rivoli, 6 – M2 Lanza)
dal 29 gennaio al 13 febbraio 2022
De infinito universo
testo, ideazione visiva e regia Filippo Ferraresi
scene Guido Buganza
costumi Giada Masi
luci Claudio De Pace
musiche Lucio Leonardi (PLUHM)
con Gabriele Portoghese, Elena Rivoltini, Jérémy Juan Willi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
coproduzione Théâtre National Wallonie – Bruxelles
Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30;
domenica, ore 16. Lunedì, riposo.
Durata: un’ora e 15 minuti
Le repliche di sabato 29 gennaio e del 1, 5, 8 e 12 febbraio saranno sovratitolate in lingua inglese
Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro
Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org
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