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venerdì 3 maggio 2024

"DI NUOVO VIVO"
MARONATI E MANGOLINI
INAUGURAZIONE VENERDI 3 MAGGIO ORE 19

Dal 3 maggio al 2 giugno 2024
Gli oggetti che ci circondano, anche quelli più banali, sono poetici portatori di memorie e racconti: recano con sé le tracce di un vissuto che evolve con loro, stratificandosi e modificandosi nel tempo. La capacità di cogliere la straordinaria magia delle cose e il suo potenziale artistico è ciò che accomuna due artisti per il resto tra loro profondamente diversi: Adelio Maronati e Carlo Mangolini. Il primo (nato nel 1939) esponente della fertilissima scena artistica milanese degli anni Sessanta e Settanta; il secondo (nato nel 1970) artista e curatore aquilano. Nella sua arte Adelio impiega materiali poveri (carta straccia, spugne per i piatti usate, scarti di ogni genere), Carlo invece assembla reperti archeologici del contemporaneo (elementi metallici e vecchi oggetti d’uso). Entrambi ridanno nuova vita ai materiali, trasformandoli in opere d’arte potentemente narrative, ma anche immaginifiche, inaspettate, capaci di aprire nuovi punti di vista.

La nuova mostra di BinarioArte fa dialogare due artisti distanti per formazione, vita e percorso artistico, ma vicinissimi nell’intenzione. Il senso della memoria e la volontà di sollecitarla è quello che li avvicina. Le loro opere paiono rispondersi continuamente: da una parte la leggerezza apparente di Adelio, che usa la carta, ma dandole la forza della pietra, dall’altra la pesantezza altrettanto apparente di Carlo, che tratta il ferro, ma con il sorriso dell’ironia. Da una parte l’essenzialità delle forme di Adelio, dall’altra la magniloquenza di quelle di Carlo. Entrambi creano opere spiazzanti, capaci di coglierci di sorpresa, di rendere i materiali altro da sé, creando cortocircuiti visivi e intellettuali attraenti e intelligenti. Due modi diversi di fare poesia, ma la medesima intenzione poetica.

Adelio Maronati
(Milano, 1939)

Adelio Maronati fa parte di quella schiera di artisti sopravvissuti alla storia. Appartiene alla stirpe, ben rara, di coloro che non si sono mai traditi ma che nemmeno si sono fermati a citare sé stessi, sempre in continua ricerca ed evoluzione, senza scendere mai a compromessi. La curiosità e la fantasia di un bambino e la sapienza e il mestiere di chi fa arte da decenni: due doti straordinarie, se capaci di convivere, che in Maronati si fronteggiano in un dialogo costante, esprimendosi senza freni inibitori.

Ad Adelio non interessa apparire. Interessa creare. Creare senza porsi alcun limite, indagando le possibilità espressive di materiali e oggetti che ad altri sarebbero parse avanzi da buttar via, inutili scarti da eliminare. Tutto diventa arte o potrebbe diventarlo: tutto va conservato, osservato, messo alla prova, trasformato in qualcosa di diverso da sé. Non ci si lasci ingannare, però: Maronati non è uno di quegli artisti che fanno del riciclo la propria bandiera. Il punto non è il recupero a tutti i costi e neppure la volontà di dare una nuova vita a un rifiuto, ma la scoperta delle potenzialità poetiche di un materiale, qualsiasi esso sia - dal marmo alla spugnetta per lavare i piatti. Quelle di Maronati sono sculture che offrono - per citare le parole scritte da Emiliano Bonfanti in un testo per l’artista apparso su “Arte Incontro” nel 2003 - una tattilità attiva, che indagano la materia, la linea e la forma in una direzione esplorativa, finalizzata alla conoscenza e alla scoperta: un’attitudine che trasmette all’opera un forte potere di coinvolgimento del fruitore che, davanti all’opera conclusa, si sente comunque partecipe dell’atto creativo.

Sebbene Maronati abbia saputo ritagliarsi una nicchia di ricerca assai personale, ben distante da quella di altri artisti della sua generazione, il terreno in cui le sue radici affondano è quello della Milano del dopoguerra. Nato nel 1939, ha condiviso le sperimentazioni e le speranze di artisti come Piero Manzoni, Nanni Valentini, Paolo Schiavocampo ed Enrico Castellani: i ragazzi “nati nei Trenta”, cresciuti all’ombra (anzi, alla luce) di Fontana, giovani assetati di nuove modalità espressive, di linguaggi che modificassero radicalmente la tradizione di pittura e scultura. Artisti che - concentrati sull’indagine dello spazio, della forma, dell’interazione di un corpo con l’ambiente, del coinvolgimento del fruitore - hanno animato la scena artistica di Brera degli anni Sessanta e Settanta con esiti sorprendenti.

Maronati, del resto, al quartiere di Brera appartiene di diritto, fin dalla nascita, visto che lo stabile che gli ha dato i natali è il medesimo edificio che ospita Pinacoteca e Accademia. La sua formazione ha inizio con un’infanzia trascorsa tra artisti e intellettuali (ma anche tra gli operai e i muratori colleghi del padre), in una Milano distrutta dalla guerra, tutta da ricostruire.

Il padre, già protagonista di atti eroici nella salvaguardia del patrimonio della Pinacoteca durante i bombardamenti, partecipa attivamente alla riedificazione degli edifici cittadini, offrendo ad Adelio la possibilità di avvicinarsi ai materiali e alle tecniche della loro lavorazione, sperimentandoli in prima persona. È così che Maronati entra in contatto con quei gessi, quelle colle, quelle argille, quei bitumi, quelle pietre che poi gli saranno tanto preziosi per la propria ricerca artistica. È così che nasce la sua vocazione alla scultura: una vocazione mai tradita, mai abbandonata, sempre protetta e accudita, fino ai tempi più recenti. Perché, questo è fuori di dubbio: Maronati è scultore anche quando opera nella bidimensione, è guidato dalla materia anche quando lavora con il colore e con il segno.

Vien da sé, visto il contesto in cui Maronati è cresciuto, che negli anni Cinquanta diventi uno dei protagonisti di quella Brera insofferente alla tradizione che vaga tra le aule dell’Accademia e i tavoli del Bar Jamaica o del Genis. Vicino ad Azimut e agli spazialisti, Adelio passa, come tutta la sua generazione, dall’informale alla ricerca di nuovi linguaggi. Fondamentale è l’incontro con Nanni Valentini che lo introduce alla scoperta della ceramica. L’amicizia e il sodalizio artistico con Valentini danno avvio al cosiddetto periodo “pesarese” dell’artista, una fase creativa che durerà fino alla fine del decennio. Appartengono a quegli anni una serie di figure dalle forme sinuose, che giocano con i pieni e i vuoti, ancora in qualche modo eredi delle elaborazioni cubiste e costruttiviste delle avanguardie storiche, nonché figlie delle più recenti ricerche di ambito informale. Se l’amicizia con Nanni Valentini resterà salda e importante fino alla sua prematura scomparsa, la collaborazione artistica terminerà con il chiudersi del decennio. Quando, nel 1971, rientra a Milano, Maronati si installa nello studio di via Gentilino, allora una vera e propria corte di artigiani: studio che, dopo varie traversie, l’artista occupa ancora oggi.

Dopo la ceramica è la volta della pietra. Questa volta vicino a Maronati c’è un altro personaggio d’eccezione, grande protagonista della scena artistica italiana della seconda metà del secolo, ancora oggi straordinariamente attivo: Paolo Schiavocampo. Con lui Adelio fonda la Cooperativa degli Escavatori, per un miglior utilizzo del travertino di Serre di Rapolano, nota località in provincia di Siena, e, più in generale, per lo studio delle tecniche di lavorazione dei materiali lapidei. La cooperativa si occupa anche dell’organizzazione dei seminari estivi di restauro della pietra, tenuti dai docenti del Gabinetto di Restauro di Firenze. Per seguire le attività di questa nuova impresa, Maronati si trasferisce a Rapolano per due anni, per rientrare poi a Milano, trovando sede questa volta in via Carlo Troya. Sono questi gli anni in cui inaugura la serie dei Rotolanti, sculture in pietra e materiali vari dalle forme tondeggianti, per le quali egli inventa una sorta di manifesto. La caratteristica dei Rotolanti, “specie nobile sul pianeta terra”, spiega Maronati tra il serio e il faceto, è “il sovvertimento dell’immagine data la mobilità del soggetto”. Si tratta di “soggetti anche a una diversità di rotolamento dovuta alla differenza di materiali con pesi specifici diversissimi e contemporaneamente del loro volume”. Le forme ricurve, tondeggianti, assai attraenti di questi oggetti recano con straordinaria evidenza i tratti della poetica dello scultore: i Rotolanti sono da esporsi senza piedistallo, possono essere posizionati in direzioni diverse, come fossero sassi che si spostano e rotolano senza per questo smarrire la propria identità. In essi c’è già tutto il senso del movimento, la ricerca sul dinamismo e sul coinvolgimento del fruitore e, naturalmente, la qualità tattile che caratterizzerà poi tutti i lavori di Maronati. E c’è, soprattutto, quel sottile senso di ironia, quel sorriso intelligente e agrodolce che costituisce ancora oggi uno dei tratti salienti della sua ricerca. I Rotolanti si affidano alle mani di chi li possiede nel momento stesso in cui escono dallo studio dello scultore: entrano a far parte dello spazio che li ospita fino a confondersi con esso, mimetizzandosi con l’ambiente che li circonda, come sassi, appunto, discreti e silenziosi nella loro apparente immobilità, eppure, a osservarli bene, presenti, dinamici, pronti al mutamento.

Un mutamento che nelle opere di Maronati è sempre cercato e spesso dichiarato, come quando l’artista impiega materiali deteriorabili o instabili, come la limatura di ferro o la carta, sottoponendoli a processi di decomposizione o cambiamento naturali o forzati. Nella produzione di Adelio una sfumatura cromatica può essere prodotta dallo scolorimento dovuto ad anni di esposizione al sole, in un processo creativo tanto progressivo, quasi processuale, e lento quanto straordinariamente poetico. La mutevolezza e la caducità, del resto, sono due termini che imperano nella ricerca di Maronati: un senso dell’effimero inteso come necessario passaggio vitale, come sintomo dello scorrere dell’energia nell’universo. Nulla è fermo. Nulla si può fermare. Anche là dove le forme si fanno squadrate, poderose, imponenti - come nelle opere della fine degli anni Ottanta - la stabilità non esiste, l’eternità è comunque negata. I suoi muri, i suoi guardiani, le sue colonne che svettano verso il cielo sono sempre sospesi in un precario equilibrio, vivono in una tensione dinamica suggerita dalle loro forme ma anche dalle superfici, mai uniformi, sempre ruvide, corrose, in via di ossidazione o sbriciolamento. Come osserva acutamente Emiliano Bonfanti, che a Maronati è da sempre vicino, per amicizia e reciproco scambio di riflessioni e pensieri artistici, le “sue opere sono pregne di questo essere, accettano il diventare, anzi diventano umane. Accettano (accettando la caducità) l’abbandono alla temporalità, perciò diventano umili e fragili proprio come il nostro corpo”.

Ingannano i lavori di Maronati, sembrano ciò che non sono (o lo diventano), giocano con la vista e il tatto, sfuggono alle definizioni. Hanno livelli di lettura diversi e inaspettati, instaurano un dialogo con il fruitore che supera di gran lunga il rapido colloquio del visitatore medio di una mostra o di una museo di fronte all’opera esposta. Nascono, si evolvono, si modificano. Subiscono le ingiurie del tempo e ne fanno tesoro, diventando parte del suo scorrere. Occupano lo spazio con austera modestia, imponenti anche quando di piccole dimensioni, severe e silenziose. Sono il ritratto dell’artista che le ha create. Un uomo dalla fantasia visionaria e dalla curiosità sempre accesa. Un poeta della materia che con la materia parla e racconta. Un artista che sa trasformare un ritaglio di carta di giornale, una vecchia bustina di tè o un frammento di plastica nel più nobile dei materiali. Fuori dalla tradizione, fuori dal mercato, fuori dai sistemi dell’arte: dal suo angolo nascosto Maronati guarda l’Infinito.

Carlo Mangolini
(L’Aquila, 1970)

I meccanismi della memoria, sia privata che collettiva, si muovono su molteplici binari. Il ricordo di un individuo, di una società, di un territorio può permanere nel tempo grazie a mezzi differenti: immagini fotografiche, ad esempio, o il racconto orale tramandato di generazione in generazione, o documenti e testi scritti, oppure oggetti o ciò che resta di essi. Quest’ultima categoria è spesso la meno immediata: senza dubbio è quella che richiede maggior attenzione e sensibilità da parte di chi la raccoglie, talvolta salvandola dall’indifferenza che l’avrebbe condannata alla distruzione o ad essere coperta dalla polvere degli anni. Eppure questi frammenti hanno uno straordinario potere evocativo. Del passato non conservano solo il ricordo personale di un narratore, né l’occhio soggettivo di un fotografo, ma recano le tracce di un’esistenza ancora tangibile, reale. Sulla loro superficie, spesso abrasa, ossidata, scolorita, danneggiata, ferita, registrano la vita che hanno conosciuto e le impronte delle mani che li hanno toccati, di qualcuno che li ha posseduti, utilizzati, forse anche buttati o abbandonati in un angolo.

Archeologo del contemporaneo, Carlo Mangolini costruisce memorie collettive partendo dal ricordo individuale di un oggetto recuperato. Nel farlo mette a frutto i suoi molteplici talenti: la logica e il rigore dei suoi studi e del suo mestiere di architetto, l’attenzione per le dinamiche di una società e uno sguardo intelligente sulle relazioni tra diversi elementi in uno spazio coltivati grazie alla sua attività di curatore di mostre ed eventi culturali e il linguaggio personale di un artista libero dagli schemi, che ha seguito i suoi percorsi, facendo le proprie scelte senza mai adeguarsi alle consuetudini imposte dal sistema dell’arte. Nella messa a fuoco del suo operare artistico gioca un ruolo fondamentale la sua città di provenienza: L’Aquila. Il ricordo ancora tangibile del drammatico terremoto che ne ha letteralmente distrutto non solo le architetture ma anche il tessuto sociale offre alla ricerca di Carlo Mangolini un terreno ricco di motivi di riflessione. Basterebbe la sua opera Quello che resta, composta da frammenti di oggetti in ferro che fanno da cornice ai resti di un grazioso putto di ceramica (un tempo esposto nel suo studio, raso al suolo dal sisma), per comprendere la via espressiva di questo artista capace di affidare un ricordo personale a un semplice oggetto: un oggetto che, immediatamente, si trasforma in icona, in un’immagine potentemente evocativa nella sua disarmante semplicità.

Nella recente mostra Ravvicinati incontri, allestita presso lo Spazio heart di Vimercate, un’opera di Carlo Mangolini è stata messa in dialogo con un foglio delle Carceri di Piranesi. Dall’accostamento tra questi due mondi apparentemente lontanissimi è emersa con particolare evidenza un’affascinante affinità elettiva tra le due ricerche. Lo strano macchinario farraginoso creato da Mangolini, nel suo complicato gioco di leve, tensioni, ruote e catene, schiaccia l’occhio all’immaginifica costruzione fatta di carrucole e ingranaggi incisa dal grande maestro settecentesco, in un intreccio di rimandi che sottolinea passioni e suggestioni comuni tra i due artisti. Là dove Piranesi rappresenta sul foglio, Carlo ricostruisce nella terza dimensione: entrambi raggiungono sensazioni sinestetiche, che coinvolgono l’udito, il tatto, perfino l’odorato, ed entrambi sanno sedurre lo spettatore catturandone la curiosità. Il dialogo proposto dall’esposizione vimercatese ha rivelato un aspetto forse meno immediatamente evidente nella ricerca di Mangolini: la visionarietà e la carica immaginifica delle strutture da lui composte.

Il reimpiego di oggetti comuni nell’opera dell’artista aquilano è sottoposto a una complessa e personale rivisitazione. Spesso l’oggetto recuperato è chiamato a interpretare un ruolo che non gli è proprio, trasformandosi radicalmente, pur senza smarrire mai la propria riconoscibilità. C’è, insomma, un sofisticato processo mentale che supera la sfera razionale e sconfina ampiamente nei territori della fantasia e della surrealtà. Questo metamorfismo, spesso accompagnato da una certa dose di ironia, è spesso sottolineato dai titoli delle opere. La lama tagliente di un attrezzo agricolo diventa una Falce di luna, una catenella di cristalli si trasforma nell’Acqua preziosa che sgorga da un rubinetto e così via. Gli oggetti si incontrano, si fondono, si uniscono a formare una nuova entità, una creatura capace di sollevare riflessioni, invitandoci a guardare con occhi diversi la nostra banale quotidianità. Anche i titoli, del resto, in questo gustoso gioco di allusioni, rimandano sempre all’esistenza umana, sia quella esteriore, della relazione con la società e con l’ambiente, sia quella interiore, analizzata nella sua più profonda intimità. Ed è così che l’assemblaggio di elementi di recupero riesce a parlarci di ristoro, accettazione, equilibrio, sospensione, raccontandoci qualcosa di ben più profondo del semplice divertissement estetico trasmesso a un primo, superficiale, sguardo. Mangolini trasforma, dunque, frammenti e oggetti potenzialmente inutili, o quantomeno non così interessanti, in strutture complesse e ricche di significato. Lo fa con ostentata noncuranza, con sorprendente immediatezza e con un invidiabile e innato senso dell’armonia e dell’equilibrio delle parti: lo fa con un sorriso sornione, il sorriso di chi si diverte e vuole farci divertire, pur trattando tematiche spinose e affrontando argomenti profondi e spesso per nulla semplici. Del resto la leggerezza, si sa, è qualcosa di ben diverso dalla superficialità: e le opere di Carlo sono incredibilmente leggere, nonostante il peso specifico dei materiali, la serietà dei temi e la densità delle composizioni.

Lo stile di Mangolini, nato per un’esigenza personale e una sincera vocazione alla comunicazione artistica, sebbene già ben improntato fin dalle prime opere, si è definito negli anni ed è cresciuto. Negli ultimi lavori Carlo ha cercato una sintesi maggiore, sfuggendo al rischio della ridondanza estetica che i primi lavori, ricchissimi di elementi assemblati, potevano rischiare. Approfondendo i valori di equilibrio e armonia che da sempre caratterizzano la sua ricerca, ha saputo assecondare il processo di semplificazione e di ricerca di essenzialità che spesso contraddistingue la fase più matura di un artista.

Nella produzione recente emerge con maggior evidenza anche la formazione da architetto, nella sensibilità per i valori strutturali e la rispondenza dei volumi. Ne offre una notevole testimonianza Crack, l’opera realizzata per il progetto Under the bridge, che ha avuto luogo proprio negli spazi del Binario 7, essenziale fin quasi alla severità e proprio per questo perfettamente efficace per il tema. In quest’ultima opera emerge ancora una volta l’appartenenza a un luogo, la relazione con la sua città ferita e con le molte ipotesi di ricostruzione che in questi ultimi anni l’hanno caratterizzata.

Questo pur stretto legame con il proprio territorio non è, però, un limite creativo. Messo alla prova da una residenza d’artista in Brianza, Mangolini ha dato prova di sapersi adattare a humus ben diversi dalla sua terra d’origine. La sua capacità narrativa, insomma, sa cogliere le sfumature di aree e realtà sociali differenti, riuscendo ad andare a fondo nella sua indagine anche lontano dalla sua zona di conforto. Umanista dell’età contemporanea, Carlo trova ispirazione ovunque ci sia storia, sedimentazione, passaggio umano, stratificazione di generazioni e profondità sociale. Attraverso gli oggetti – vecchie chiavi, serrature, vecchie lampadine, rubinetti, lame, seghetti, pezzi di ferro arrugginito – tesse trame tutte da leggere. Con curiosità e una sensibilità fuori dall’ordinario, Mangolini indaga, cerca, studia, comprende, e scrive storie. Storie che raccontano, fanno riflettere, denunciano o semplicemente, romanticamente, ritraggono le persone, i luoghi, le società che lui ha incontrato, mescolando ricordi, incrociando esistenze, culture, sentimenti. Costruendo nuove memorie.

Di nuovo vivo
Adelio Maronati - Carlo Mangolini

Una mostra a cura di Simona Bartolena e Armando Fettolini
Nell’ambito del progetto BinarioArte

Vasca espositiva del Teatro Binario 7
Via Turati 8, Monza

Dal 3 maggio al 2 giugno 2024
Inaugurazione venerdì 3 maggio, ore 19

Da martedì a domenica dalle 15 alle 18
Ingresso gratuito


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