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venerdì 26 gennaio 2024

TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
PRIMA ASSOLUTA
"COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA"
(CAJKA)

Dal 27 gennaio al 25 febbraio, al Teatro Studio Melato, Liv Ferracchiati porta in scena, in una nuova produzione del Piccolo, Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka), liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov, con la consulenza letteraria di Fausto Malcovati.


In scena (in ordine alfabetico) Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini (Premio Ubu e Virginia Reiter 2023 come miglior attrice under 35), Cristian Zandonella. Le scene sono firmate da Giuseppe Stellato, i costumi da Gianluca Sbicca, le luci da Emiliano Austeri, il suono è a cura di spallarossa (Giacomo Agnifili).

In una casa sul lago, uno scrittore è impegnato nella stesura di un nuovo testo, fissa le parole sul foglio, le cancella, le pronuncia ad alta voce, alla ricerca di una forma nuova, capace – forse – di incidere sulla realtà e di dare a lui una collocazione nell’esistenza. Sua madre è una grande attrice nella maturità del suo percorso artistico, la donna di cui è innamorato è un’attrice all’inizio della carriera. Le due, l’una riflesso dell’altra, sembrano non concedere al protagonista il riconoscimento a cui aspira come uomo e artista.

La sua fragilità è anche quella delle “nuove forme” artistiche a cui anela, forme che non sono ancora canone, destinate, quindi, come lui, a essere fraintese. Morire, allora, interrompendo la perpetua preghiera per esistere o, in alternativa, scrivere per mettersi al mondo da soli, per darsi forma davanti ai propri occhi e sopravvivere, sembrano le uniche possibilità.

Come tremano le cose riflesse nell’acqua è una nuova tappa del percorso di dialogo e confronto con i classici che Liv Ferracchiati, alla sua seconda regia in una produzione del Piccolo, ha avviato a partire proprio da Platonov. È anche, quindi, un ritorno a Čechov che, con il suo Gabbiano, approfondito grazie alla preziosa ‘mediazione’ linguistica e culturale di Fausto Malcovati, attraversa la scrittura del regista, ne è scintilla ispiratrice, ponendosi all’origine di un lungo lavoro, iniziato più di due anni fa, il cui esito finale è una drammaturgia del tutto originale.

Non è autofinzione, maniera teatrale spesso erroneamente attribuita al regista, che anzi l’ha voluta, non riconoscendovisi, deformare parodisticamente nella sua precedente regia HEDDA.GABLER. come una pistola carica. Inoltre, questa volta, Ferracchiati tiene per sé solo il ruolo di regista, senza calcare la scena, immaginando i personaggi di Čechov nella nostra contemporaneità, manipolando, scomponendo, riscrivendo scene e dialoghi intorno a due fuochi tematici: il rapporto madre e figlio e la ricerca, tormentata e inesausta, di un riconoscimento, una sorta di autorizzazione a esistere che discende, inesorabilmente, dall’altrui sguardo. La attende, anche nell’originale, Kostja (qui il Figlio) dalla madre e da Nina, ma è un anelito che attraversa tutti e rende Come tremano le cose riflesse nell’acqua uno spettacolo autenticamente corale, costantemente riflesso nelle acque, ora placide ora increspate dalla corrente narrativa, del lago, sulle cui rive si intrecciano le vite dei personaggi.

Solo all'apparenza immobile, lo specchio rovesciato attrae tutti con la sua insidiosa seduzione e prende vita attraverso le parole dei personaggi; essi ne sono guardati e lo guardano, sporgendosi sul suo abisso, vertigine anche interiore, e in esso smarrendosi, come nel caso di Kostja. «Un lago-placenta – spiega Ferracchiati – da cui è difficile staccarsi, perché separarsi dall’origine significa esistere con le proprie forze, senza mutuare ragioni negli sguardi altrui. Significa partorirsi, rinunciare al concetto di madre e allo statuto di figlio. Ci saranno ancora “tonnellate d’amore” come ne Il gabbiano di Čechov quindi, ma divise tra quelle che permettono di nascere definitivamente e quelle che uccidono». D’altra parte, il titolo, mutuato da un racconto di David Foster Wallace, Caro vecchio neon, allude precisamente a quella tremula evanescenza che disgrega le cose, agli occhi del protagonista, nell’istante che precede il suicidio, inteso proprio come atto di resa di fronte all’impossibilità di essere autenticamente se stessi.

La distribuzione universalizza in ruoli, ognuno con la sua didascalia esistenziale, i nomi dei personaggi cechoviani, fatta eccezione per Nina, simbolo e incarnazione stessa del Teatro, una che vuole fare l’attrice o la rivoluzione, interpretata da Petra Valentini. Arkadina diventa la Madre, una grande attrice forse in declino, interpretata da Laura Marinoni; Kostja, il Figlio, uno che prova a influenzare la realtà con la scrittura (Giovanni Cannata); Sorin, lo Zio, uno che voleva essere, ma non è stato (Nicola Pannelli); Trigorin, il Romanziere, uno a cui piace pescare, ma deve scrivere (Roberto Latini); Maša, la Vicina, una che porta prugne e il lutto per la sua vita (Camilla Semino Favro), Dorn, il Dottore, uno sazio della vita (Marco Quaglia); Medvedenko, il Maestro, uno a cui tocca camminare (Cristian Zandonella).

Nella personalissima geografia di spettacoli che Liv Ferracchiati va componendo per il Piccolo Teatro di Milano, in qualità di artista associato dal 2022, dopo essersi confrontato con la «mitologia terrigna» del testo ibseniano Hedda Gabler, l’itinerario creativo penetra ora tra le trasparenze del capolavoro čechoviano Il gabbiano, eleggendo a suo fulcro lo spazio fisico e mentale di un lago. L’acqua racchiude in sé le metamorfosi e le contraddizioni dell’esistenza dei personaggi, alla ricerca di verità, intime e collettive, che appaiono inafferrabili: è il luogo dell’erranza e della stasi, del turbamento e della pace interiore, del naufragio e della rinascita. È un orizzonte liquido, in cui, a mo’ di valzer degli addii (alle costrizioni del passato? Ai propri sogni?), i destini si intrecciano fino a unirsi per poi evaporare. Lo sguardo di Ferracchiati – pronto a cogliere e restituire, nella loro nuda vita, i dettagli delle storie che si rincorrono come increspature su una superficie mossa – apre deliberatamente voragini nell’opera del grande autore russo attraverso le quali affiorano le pagine e i fantasmi di scrittori coevi a Čechov (Guy de Maupassant) o cosiddetti post-moderni (David Foster Wallace). Sostenuta da un tessuto eterogeneo di tracce musicali, la chirurgica partitura di Come tremano le cose riflesse nell’acqua (čajka) è animata dal talento dell’eclettica compagnia di attrici e attori in scena, il cui gioco interpretativo disegna elegantemente i contorni dell’eterno e ambiguo garbuglio tra arte (in particolare, scrittura) e realtà. Claudio Longhi

Čechov, un classico da attraversare
Conversazione con Liv Ferracchiati
(dal programma di sala dello spettacolo)

Dopo La tragedia è finita, Platonov da Čechov e HEDDA. GABLER. come una pistola carica da Ibsen, hai scelto di tornare a Čechov per “attraversare” Il gabbiano. Parlaci di questo tuo nuovo incontro.

Il lavoro sui classici è cominciato con Platonov ed è proseguito per tappe tematiche. In quel caso, mi ero avvicinato a Čechov con il supporto della traduzione di Tatiana Olear e avevo destrutturato l’originale affiancandola a un mio nuovo testo. In Come tremano le cose riflesse nell’acqua, invece, la drammaturgia è attraversata da Il gabbiano di Čechov, ma diventa, di fatto, una struttura testuale a sé stante. Čechov è un autore che studio da anni perché credo che non sia solo una fonte d’ispirazione, ma anche un’occasione per analizzare tecniche di scrittura. Nello scrivere il nuovo testo, ho immaginato come sarebbe stato ritrovare i personaggi del Gabbiano oggi, nella nostra contemporaneità. Mi discosto dall’originale, con scene che in Čechov non esistono, che sono scritte diversamente, oppure che sono collocate in punti diversi del racconto, modificando così il fuoco della narrazione. Il primo atto del Gabbiano si chiude con uno scambio di battute tra Dorn e Maša; nella mia versione, si conclude con la conversazione tra il Dottore e il Figlio, che corrispondono a Dorn e a Kostja, andando a sottolineare uno dei focus tematici che mi interessavano, ovvero il rapporto genitore/figlio, legato al tema del riconoscimento non solo come individuo, ma anche come artista. Nel lavoro di riscrittura, è stato fondamentale l’apporto di Fausto Malcovati [traduttore, critico, docente di Lingua e Letteratura russa all’Università degli Studi di Milano, nonché uno dei massimi esperti italiani del teatro di Anton Čechov, ndr] che è stato mediatore tra noi e l’originale russo, aiutandoci ad approfondire la psicologia dei personaggi, attraverso il modo in cui dialogano nella lingua russa. È il caso di Maša, per esempio – nel mio testo “la Vicina” – che si esprime in una lingua spezzata, brusca, adatta a veicolare un pensiero che continuamente si scaglia e si arresta. Il russo impiega forme della frase estremamente contratte che l’italiano non prevede; sulla scorta di quanto evidenziato da Malcovati, con la dramaturg Piera Mungiguerra e l’assistente alla drammaturgia Eliana Rotella, abbiamo discusso a lungo su come renderla e abbiamo cercato di spezzare le battute di Maša, di frazionarle. Nel caso del Romanziere – Trigorin nell’originale cechoviano – occorreva pensare a un linguaggio che potesse essere alto e basso, a tratti persino volgare. Čechov si irritava con Stanislavskij che pensava a un Trigorin elegante: per l’autore era, al contrario, un uomo venuto dal basso, che ha faticato per arrivare al successo. Il lavoro con Malcovati ha preso avvio più di due anni e mezzo fa: oltre al teatro cechoviano e ai racconti, abbiamo letto praticamente tutto l’epistolario di Čechov pubblicato in italiano, oltre ad altre lettere tradotte “all’impronta” dal professore espressamente per noi. Dopo questa immersione totale nell’universo Čechov, mi sono avventurato in quella che si può definire come una scrittura “spericolata” che si origina da Il gabbiano.

Rispetto a HEDDA. GABLER. come una pistola carica, in questa tua nuova drammaturgia l’autofinzione sembra essere completamente scomparsa…

L’autofinzione esiste se il nome dell’autore corrisponde al nome del personaggio del racconto e soprattutto se è dichiarata dall’autore stesso; io non ho mai fatto autofinzione fin qui e soprattutto non l’ho mai dichiarata. Non so perché in molti lo credano, né da cosa derivi. Non ho nemmeno mai praticato il genere dell’autobiografia, almeno non nel senso del racconto che nasce da una storia “vera”. Forse ho giocato con il genere in HEDDA. GABLER., dove parodiavo bonariamente l’autofinzione, perché mi interessava che un personaggio ibseniano si relazionasse apertamente con il pubblico. Per questo lo spettacolo iniziava con la battuta: «Il mio nome è Ejlert Løvborg e sono un accademico. Sono nato a centoventi chilometri da Oslo, in Norvegia, ho trentatré anni.».

Insomma, faceva parte della struttura drammaturgica, della finzione, ma io credo che l’autofinzione esista solo se dichiarata e soprattutto se apporta un senso ulteriore alla narrazione, se è motivata. In ogni caso nell’autofinzione si tende a rintracciare la verità, mentre è un genere che pretende di intrecciare realtà e finzione e che vede nella seconda istanza la parte preponderante e più interessante. Credo che l’equivoco si sia generato ai tempi del mio esordio, che poi tale non era, ma era la prima volta in cui si dava davvero peso al mio lavoro. Portavo in scena la Trilogia sull’Identità [progetto teatrale cui Liv Ferracchiati ha lavorato dal 2015 al 2017, ndr], tre spettacoli che nascevano da una ricerca che potremmo definire di stampo antropologico. Abbiamo intervistato molte persone sul tema dell’identità di genere, abbiamo incontrato studiosi e persone qualsiasi, tante realtà che ci avevano fornito un materiale talmente vasto che, dal progetto iniziale, che prevedeva solo Peter Pan guarda sotto le gonne, siamo approdati a una trilogia comprendente altri due titoli, Stabat Mater e Un eschimese in Amazzonia. Il fraintendimento si origina dal fatto che i personaggi protagonisti della Trilogia erano dei personaggi transgender e io sono una persona transgender. Quando un autore cisgender popola le proprie opere di personaggi cisgender, nessuno dà per scontato che stia facendo “autofinzione” o “autobiografia”, né questo viene considerato un fatto in sé per sé. Spero che, in futuro, queste storture saranno risparmiate alle autrici e agli autori che non dovessero rientrare in un canone noto. Se invece si intendesse l’autobiografia come quel filtro vitale che si nutre dell’esperienza dell’autore e accende la sua scrittura, allora la mia posizione cambia. Anzi, sono convinto che ogni buona scrittura sia, di fatto, autobiografica. E comunque mi torna in mente Thomas Mann ne La morte a Venezia: «Certo è bene che il mondo conosca solo la bella opera, e non anche le sue origini, non le condizioni in cui venne formata; perché la conoscenza delle fonti da cui è scaturita, per l’artista, l’ispirazione spesso sgomenterebbe, confonderebbe, neutralizzando così gli effetti dell’eccellenza.»

Hai detto che Čechov occupa un posto privilegiato nella tua biblioteca di autori per il teatro. Perché, questa volta, hai scelto di dedicarti al Gabbiano?

Il gabbiano mi ha sempre colpito per due fuochi tematici. Il primo è il rapporto madre-figlio e il secondo è il bisogno di una sorta di “patentino per esistere”. Non è un caso che per me la “scena perno” sia quella del terzo atto tra madre e figlio, la scena della bendatura. Kostja è alla continua ricerca di una legittimazione della propria esistenza, di una collocazione e, soprattutto, di un senso che leghi tutto. Vorrebbe ottenere il riconoscimento di cui è in cerca in primis dalla Madre, ovvero dall’Arkadina, poi da Nina, che di lei è figura specchio. In questa continua indagine per guadagnare il diritto di esistere, è come se chi guarda contribuisse a plasmare l’identità del guardato, ma, in qualche modo, tutti sono sempre in dovere di performare più che di essere. Non essere visti ha come conseguenza la mancata realizzazione di sé. Per questo attrae la mia attenzione il lago che è un occhio che guarda e riflette la necessità di legittimazione che accomuna tutti i protagonisti di questo grande testo corale.

La legittimazione derivante dall’occhio di chi guarda, in senso lato può essere applicata anche al teatro e all’attore che, nello sguardo del pubblico, si specchia e ritrova la ragione del proprio esistere?

Trovo molto affascinante che i personaggi ricerchino lo sguardo dell’altro e che, allo stesso tempo, in palcoscenico, si svolga uno spettacolo che è guardato da un pubblico. Vi è una sorta di “incidenza verticale” della narrazione che si espande alla realtà, inglobando lo spettatore il quale, come in un gioco di scatole cinesi, guarda i protagonisti che, a loro volta, cercano conferme negli altri personaggi. Sartre, in L’essere e il nulla scrive: «Io sono posseduto dall’altro; lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce come è, lo vede come io non lo vedrò mai. L’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono. […] Così il senso profondo del mio essere è fuori di me, imprigionato in un’assenza.»

A proposito di quello che lo sguardo altrui crea dell’altro, mi colpisce molto come Čechov, oggi considerato intoccabile, un classico che è un sacrilegio contaminare, fosse piuttosto inviso alla critica a lui contemporanea che non era in grado di coglierne il portato innovatore, almeno all’inizio, e soprattutto con il suo teatro. Erroneamente considerato un autore serioso, continuamente implorava, già negli incontri con Stanislavskij, di non trascurare i momenti di comicità disseminati nelle sue opere. Questo aspetto mi fa riflettere su come i tempi non siano mai maturi per accogliere, al loro manifestarsi, quelle nuove forme di cui nel Gabbiano si parla. Le prime due battute del testo originale si aprono, con Medvedenko, il Maestro, che, rivolgendosi a Maša, domanda: «Perché vestite sempre di nero?» E lei risponde: «Infelicità. Porto il lutto per la mia vita.» Sono due battute geniali, eppure, per l’epoca, sconvolgenti. E questo ci fa guardare diversamente al personaggio di Kostja e al suo suicidio, che nasce non solo da motivazioni personali, ma anche dall’aver compreso che la nuova forma di cui va in cerca, qualora dovesse essere riconosciuta e apprezzata, si trasformerebbe in canone, si cristallizzerebbe e morirebbe. Perciò è utopia aspirarvi. Di nuovo lo sguardo altrui che in questo caso, riconoscendo o non riconoscendo, uccide.

Raccontaci come hai costruito il cast del tuo spettacolo.

Inizio da Laura Marinoni, artista che ammiro da sempre per la sua potenza espressiva. Da quando ho iniziato a pensare al Gabbiano per me la Madre (Arkadina) poteva essere soltanto lei. È un piacere lavorare con Laura, per la sua ironia e capacità di mettersi a servizio del progetto, pur rimanendo sempre protagonista per carisma e intelligenza scenica. In ogni caso, con tutti gli attori del cast, più che una direzione da parte mia, c’è un confronto per approdare al risultato migliore. Un altro artista che non ha bisogno di essere presentato e diretto è senz’altro Roberto Latini che interpreta il Romanziere (Trigorin). Roberto ha un percorso autoriale, registico e attoriale del tutto originale, che apprezzo profondamente, eppure, anche ritrovandosi nel mio immaginario, ha saputo mettere a frutto il suo istinto, in un continuo dialogo e confronto. Nicola Pannelli, nella parte dello Zio (Sorin), possiede un talento fuori dal comune: è sufficiente chiedere di applicare una determinata sfumatura per vederla immediatamente realizzata in palcoscenico con semplicità spiazzante. Marco Quaglia, è tra gli attori quello che ha scelto un percorso più off. So che sceglie di collaborare solo a spettacoli che per lui risultino davvero significativi, ed è quindi per me un onore che abbia accettato di far parte di questo progetto: al Dottore sta regalando un’interpretazione intensa e inusuale rispetto al Dorn che tutti conosciamo. Ci sono anche due esordienti, Giovanni Cannata e Cristian Zandonella, neodiplomati entrambi, il primo all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma, il secondo alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Giovanni si è diplomato in un saggio di fine corso diretto da me [“Come la marmellata che non mangio mai. Studio sul Gabbiano di Anton Čechov”, ndr] e ho deciso di dargli enorme fiducia affidandogli la parte del Figlio (Kostja), come è giusto che sia. Mi piace molto perché riesce ad essere sempre naturale e in connessione con quello che gli accade intorno. Cristian, il Maestro, ovvero Medvedenko, ha iniziato a lavorare allo spettacolo come assistente volontario alla regia, ma poi, recitando le battute di quel personaggio, mi ha colpito per la capacità di immersione totale in quello che fa. Camilla Semino Favro, con la quale non avevo mai lavorato, ma che avevo apprezzato più volte a teatro, è dotata di grande sensibilità scenica che le consente di comprendere all’istante, anche tecnicamente, che tipo di atteggiamento interpretativo assumere, caratteristica estremamente utile per il suo ruolo. Infine, a Petra Valentini ho voluto affidare il ruolo di Nina perché ho tratteggiato un personaggio più maturo rispetto all’originale di Čechov. Sapevo che l’energia scenica di Petra avrebbe fatto fare un salto di potenza all’abituale iconografia della ragazza giovanissima. Petra è per me una compagna di lavoro di talento alla quale affidarmi completamente. Insomma, in qualche caso è un piacere fare il regista: questo spettacolo è uno di quei casi.

Prima accennavi al lago come al “nono personaggio” del tuo spettacolo. È così?

Il lago è presente anche visivamente, ma a un certo punto scompare. Del resto, anche Kostja, nell’originale cechoviano, allude a un «lago improvvisamente riarso o inghiottito dalla terra». Nel nostro spettacolo continua a vivere nella “scenografia verbale” che i personaggi creano attraverso i loro dialoghi. È una sorta di termometro delle atmosfere e dei loro umori, calmo all’inizio, agitato nel quarto atto – «che onde sul lago»: è la Vicina (Maša) a notarlo, lei che, di tutti, è il personaggio più in connessione con lo specchio d’acqua. Abbiamo preso spunto anche da una lettera in cui Čechov, parlando del celebre lago Bajkal, lo descrive come molto profondo e trasparente e dice che, sporgendosi a guardare le sue profondità, si è sentito rabbrividire.

Il gabbiano è anche la commedia degli amori infelici: tutti amano qualcuno che fugge e sono inseguiti da chi vorrebbero evitare…

È Čechov a dire, non senza ironia, che in questo testo ci sono «tonnellate d’amore» ed è senza dubbio l’aspetto della trama più universale. Per me, il continuo non amarsi e rincorrersi è la metafora di quel desiderio di riconoscimento di cui parlavo: non amare, in questo caso, significa negare l’esistenza dell’altro e può risultare fatale.

Parlaci del titolo che hai scelto, Come tremano le cose riflesse nell’acqua.

È mutuato da un racconto di David Foster Wallace, intitolato Caro vecchio neon. In quel testo, il protagonista, Neal, in una sorta di monologo interiore successivo al proprio suicidio, racconta di essersi sempre percepito come un impostore. Con i vari interlocutori incontrati nella vita – la sorella, i genitori adottivi, le fidanzate, i colleghi, lo psicanalista… – ha messo in atto strategie utilitaristiche, per compiacere gli altri, sentirsi compreso, amato: in una parola, riconosciuto. Il testo che rappresentiamo ha iniziato a prender forma nella mia testa quando la scena della bendatura del terzo atto de Il gabbiano è entrata in contatto con il ricordo di questo racconto, in particolare al momento della descrizione dell’istante in cui il protagonista decide di uccidersi e dice: «Me ne stavo lì seduto a pensarci e guardavo il ficus. Tutto sembrava tremare un po’, come tremano le cose riflesse nell’acqua». Di quella frase mi ha colpito la sensazione di evanescenza che precede il gesto estremo e il fatto che si legasse alla presenza del lago, dell’acqua, del rispecchiarsi in essa e delle increspature che la muovono. In fondo, uno dei nodi tematici attorno cui ruota la narrativa di Wallace è l’intreccio indistricabile e problematico tra pensiero, linguaggio e realtà.

OLTRE LA SCENA | COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA (čajka)

SEGNALIBRO |

Presentazione del libro HEDDA. GABLER. come una pistola carica

Non una riscrittura, ma una nuova drammaturgia parallela all’Hedda Gabler di Ibsen.

Con questo spirito, Liv Ferracchiati si è immerso, nella scorsa stagione, nel capolavoro dell’autore norvegese. In occasione del suo nuovo debutto, il regista fa i conti con il proprio, recente, percorso, presentando il volume di HEDDA. GABLER. come una pistola carica per i tipi del Saggiatore.

Un dialogo originale – tra opera e vita, scena e mondo, passato e presente – che è anche una riflessione sull’«identità» e sul modo in cui tentiamo di comunicare noi stessi agli altri.

Insieme a Ferracchiati, intervengono Vera Gheno, autrice della prefazione, e Andrea Meregalli, che ha curato la nuova traduzione del testo di Ibsen alla base del lavoro.

Chiostro Nina Vinchi - lunedì 29 gennaio, ore 18
con Liv Ferracchiati, Vera Gheno e Andrea Meregalli
in collaborazione con il Saggiatore

CHI È DI SCENA?

A pochi minuti dal “chi è di scena”, il pubblico e gli operatori del teatro hanno l’occasione di incontrarsi in un momento informale di confronto sui temi di Come tremano le cose riflesse nell’acqua.

Teatro Studio Melato – giovedì 8 febbraio, ore 18, e mercoledì 14 febbraio, ore 19

PAROLE IN PUBBLICO | Incontro con la compagnia

Mentre le vite dei personaggi di Come tremano le cose riflesse nell’acqua si intrecciano sulle rive di un lago che assiste ai loro amori e alle loro distruzioni, sulla scena e nelle prove, si sono incrociate le esperienze delle attrici e degli attori con cui Ferracchiati ha dato vita al lavoro. Ed è proprio per approfondire il punto di vista della compagnia, ragionare dei temi che attraversano lo spettacolo e scoprire il percorso di creazione che il cast dello spettacolo (Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella) incontra il pubblico al Chiostro Nina Vinchi.

Chiostro Nina Vinchi - venerdì 9 febbraio, ore 18
con le attrici e gli attori della compagnia, modera Anna Piletti

WALK TALK | Riflessi di una “Maternità”, un percorso tra arte e natura

Una casa che si affaccia su un lago, che l’avvolge come liquido amniotico e che, come tale, “contiene” la creazione, la capacità generativa e artistica. Queste le suggestioni che, dall’allestimento di Liv Ferracchiati, trovano un riflesso nei luoghi abitati dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano e nella sua collezione. In particolare, l’opera di Gaetano Previati, MATERNITÀ, (1890-1891) entrata a far parte dell’esposizione nel 2022, grazie a un comodato di Banco BPM, consente di avviare un percorso di attraversamento del tema del materno nella pittura di fine Ottocento, inquadrando così l’area cronologica di provenienza del testo di Čechov e le tangenze, formali e tematiche, tra arte pittorica e letteratura tra i due secoli. Il percorso, che intreccia letture a cura delle attrici e degli attori della compagnia dello spettacolo e contributi scientifici delle operatrici e degli operatori della GAM, si spingerà successivamente nel giardino antistante la Villa, tra i primi progettati “all’inglese” a Milano dall’architetto Pollack, caratterizzato dalla presenza dell’acqua e di un piccolo lago ornamentale.

GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano (Via Palestro 16) - sabato 10 febbraio, ore 11
con gli attori e le attrici della compagnia
In collaborazione con: GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano
Un particolare ringraziamento alla Direzione Verde e Ambiente - Area Verde Comune di Milano per aver consentito l’accesso al Giardino della Villa Belgiojoso Bonaparte

PAROLE IN PUBBLICO | PRESA DI PAROLA

La madre dei mostri

Come tremano le forme riflesse in Maupassant

Punto di partenza degli appuntamenti di “Presa di parola” sono alcuni testi scelti direttamente dalle compagnie come possibili “punti di accesso” o fonti di ispirazione dei propri lavori. Libri, poesie, lettere, ma anche canzoni e sceneggiature cinematografiche. Voci altrui, prese in prestito, che diventano “trampolini testuali e letterari” per lanciare una conversazione sugli spettacoli insieme ai protagonisti della scena e a moltissimi ospiti.

La madre dei mostri, uscito su “Gil Blas” nel 1883, non è solo un’historiette a tinte fosche ma una lucida e acuminata riflessione sul rapporto filiale che lega opera e autore, sulle nuove forme che si sviluppano “in seno” alla produzione letteraria e sulle mode che l’attraversano. È alla penna di Guy de Maupassant che si affida Liv Ferracchiati per interrogare, attraverso le questioni sollevate dallo vscrittore francese nel suo racconto, il lavoro di scena e la rilettura del testo Čechov.

A tracciare le linee che corrono tra i due autori e lo spettacolo sarà lo stesso regista in dialogo con Margherita Crepax, docente ed esperta di Teoria, tecnica e traduzione russa e Andrea Gentile, scrittore e direttore editoriale del Saggiatore con la moderazione di Roberta Ferraresi.

Chiostro Nina Vinchi - mercoledì 14 febbraio, ore 18
con Liv Ferracchiati, Margherita Crepax, Andrea Gentile, modera Roberta Ferraresi.

Laddove non diversamente specificato, tutti gli appuntamenti sono a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su piccoloteatro.org

Piccolo Teatro Studio (via Rivoli, 6 – M2 Lanza)

dal 27 gennaio al 25 febbraio

COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA

(čajka)
uno spettacolo di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
regia Liv Ferracchiati
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con (in ordine alfabetico)
Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni,
Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro,
Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
foto di scena Masiar Pasquali

Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 2030;
domenica, ore 16. Lunedì riposo.
Durata 2 ore e 20 minuti senza intervallo

Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro

Informazioni e prenotazioni 02.21126116 - www.piccoloteatro.org


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