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lunedì 11 aprile 2022

TEATRO STUDIO MELATO DI MILANO
"CARNE BLU"
PRIMA REGIA DI FEDERICA ROSELLINI

Mercoledì 13 aprile debutta, in prima nazionale, al Teatro Studio Melato, Carne blu, prima regia di Federica Rosellini in una produzione del Piccolo, del quale da questa stagione è artista associata.

Lo spettacolo, in scena fino al 30 aprile, racconta la storia del viaggio di Orlando, bambino nato sulla Luna. Ispirandosi ad Ariosto e alla Woolf, l’artista, sola in scena, dà corpo a un’opera ibrida fra narrativa, teatro, fiaba gotica.

Per Carne blu (co-regia di Fiona Sansone) Federica Rosellini ha immaginato un’architettura scenica di grande suggestione, creata da Paola Villani e abitata dalle realizzazioni scultoree di Daniele Franzella. I costumi sono firmati da Simona D’Amico, le luci da Luigi Biondi, il suono, ogni sera dal vivo, è a cura di Gup Alcaro. Visual designer è Massimo Racozzi.

Venerdì 22 aprile, alle ore 17, al Chiostro di via Rovello, Federica Rosellini presenterà al pubblico Carne blu, il libro pubblicato nel 2021 da Giulio Perrone Editore.

Carne blu nasce dal silenzio e dall’isolamento del lockdown. Federica Rosellini scrive il libro nei mesi più bui della pandemia; correda il testo con illustrazioni che realizza di suo pugno, per raccontare un tempo di evanescenza e trasparenza del corpo, come carne blu, appunto, alla ricerca di ciò che si è perduto e non si riesce a dimenticare. Da mercoledì 13 aprile, questo percorso si compie nella ritrovata fisicità dell’azione teatrale, in uno spazio, quello dell’arena del Teatro Studio Melato, allagato da una voce che si fa corpo. Carne blu è uno spettacolo per voce sola, una fiaba nera: racconta la storia del viaggio di Orlando e del suo cuore di pesce. A differenza degli altri bambini, Orlando non ha un cuore di carne protetto dalla cassa toracica, ma una piccola tasca di stoffa ricolma d’acqua, sulla sinistra del petto, dove nuota un pesciolino tutto d’oro, di nome Sunny. Quando Orlando lascia il proprio cuore libero di nuotare, la metamorfosi inizia e il corpo cambia, attraversando specie e generi diversi: è maschio e femmina, è uccello e insetto. Nato sulla Luna, in una dimensione altra, fuori dal tempo ordinario, Orlando è un personaggio metamorfico, fatto di potenziali moltitudini, libere dalle classificazioni, capace di portare sul palcoscenico le questioni dell’identità e del doppio.

Ispirandosi all’Orlando Furioso di Ariosto e all’omonima creatura mutaforma di Virginia Woolf, con la co-regia di Fiona Sansone, esperta di didattica e di teatro dell’infanzia, Carne blu interroga, con sguardo lucido e impietoso, sull’infanzia, sulla memoria, sul dolore e l’estasi che la trasformazione porta con sé. Tre sono i momenti in cui si articola, molto diversi l’uno dall’altro, ma intimamente connessi, parte di un unico organismo vivo, come viva e in movimento continuo è la scena, vivo è il costume che si fa pelle, vivo e ogni sera diverso è il suono: lo spettacolo è una creatura che muta in continuazione, instancabilmente, gioiosamente, come il corpo di Orlando.

Piccolo Teatro Studio Melato (via Rivoli 6 – M2 Lanza)
dal 13 al 30 aprile 2022
Carne blu
di Federica Rosellini
tratto da Carne Blu. Un Orlando di Federica Rosellini (Giulio Perrone Editore)
con Federica Rosellini
scenografa Paola Villani
costumista Simona D’Amico
realizzazione scultorea Daniele Franzella
light designer Luigi Biondi
visual designer Massimo Racozzi
sound designer Gup Alcaro
assistente alla regia Elvira Berarducci
regia Federica Rosellini e Fiona Sansone
produzione Piccolo Teatro di Milano–Teatro d’Europa
un ringraziamento particolare a Daniela Bassani e a Nadia Terranova
con il sostegno di Dialoghi-Residenze delle arti performative a Villa Manin/CSS Teatro stabile di Innovazione del FVG e di RuotaLibera/Centrale Preneste Teatro
Foto di scena Masiar Pasquali

Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16.

Lunedì, riposo. Sabato 16 e domenica 17 aprile riposo.

Le recite del 13, 23 e 30 aprile sono sovratitolate in inglese

Lo spettacolo presenta una sequenza di nudo integrale e una scena in cui si utilizza un linguaggio sessuale esplicito

Prezzi: platea 40 euro, balconata 32 euro

Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org

Ribadendo la mirata e convinta attenzione rivolta ai giovani artisti per interrogare – attraverso i loro personalissimi sguardi – le profonde trasformazioni del tempo presente, per tratteggiare ipotesi e prospettive per il futuro, per coltivare il rischio e sperimentare modi e forme di un mondo in transizione che non potrà che essere nuovo, il Piccolo Teatro di Milano accompagna e accoglie la prima creazione di Federica Rosellini, una delle più talentuose e promettenti interpreti della scena contemporanea, qui anche in veste di autrice. Atipico e perturbante romanzo di formazione, reinterpretato in chiave di fiaba gotica, Carne blu unisce il piano della dispersa “scrittura di sé”, a mo’ di diario intimo e privato, a un orizzonte dal respiro cosmico, in cui riecheggiano, tra le altre, le voci di Ludovico Ariosto e Virginia Woolf. Lungo le ininterrotte e favolose metamorfosi dello spettacolo, in una peculiare fusione di candida fragilità e affilata crudeltà, si assiste a un progressivo sprofondamento che – come accade per la mitologica città di Kitež, inabissatasi per salvarsi – conduce a una rinascita continua. Se, con le parole di Maurice Merleau-Ponty, «Toccare è toccarsi. Da intendere come: le cose sono il prolungamento del mio corpo e il mio corpo è il prolungamento del mondo, grazie a esso il mondo mi circonda», al viluppo di corpo e carne – ci insegna Federica Rosellini – bisogna abbandonarsi con fiducia: perché nella sincerità e nella vulnerabilità di quel legame c’è una sapienza che nemmeno noi, che li abitiamo (corpo e carne), siamo consapevoli di possedere.
Claudio Longhi

Correre il rischio di mostrarsi vulnerabili
Conversazione con Federica Rosellini
(dal programma di sala dello spettacolo)

Federica Rosellini, com’è nato il tuo libro Carne blu e come, da questo, sei passata all’allestimento teatrale?

Carne blu è nato durante i mesi della prima pandemia, quando tutto si è fermato. Mi trovavo al Piccolo, impegnata nelle prove di Hamlet, con Antonio Latella, quando ci siamo interrotti a causa dell’epidemia e sono rientrata a casa. Nelle settimane del confinamento, pareva che tutto dovesse essere ripensato, ricostruito, nuovamente immaginato. Dopo quei due mesi di silenzio, ho iniziato a scrivere il testo, realizzandone parallelamente anche le illustrazioni: disegnavo e scrivevo, scrivevo e disegnavo. Carne blu è nato in quelle circostanze drammatiche. Il titolo stesso è figlio del periodo, visto che il blu è un colore che stride con la carne, e simboleggiava quel tempo in cui i corpi di ciascuno di noi sembravano intoccabili, proibiti. Scrivendo, percepivo che quello era il mio modo per raccontare quanto stava accadendo e per tirare, al tempo stesso, le fila di una fase della mia vita. Era il tentativo di afferrare qualcosa che avesse la consistenza della carne, anche se mi sembrava di non riuscirci mai, per lo meno fino a quando non sono arrivata al finale del racconto. Fra le infinite apparizioni fantastiche del testo, numerosi sono gli elementi che si palesano e scompaiono, in continuo mutamento. Sul finire, si ripresenta l’immagine del grande albero incontrato da Orlando all’inizio della vicenda: ma se nella prima parte ha grosse radici, affondate in un giardino, nella chiusa lo ritroviamo radicato nel Nucleo ferroso della luna, mutatosi in un gigantesco albero di carne, muscoli, sangue e ossa. Tutto lo spettacolo è una lunga ricerca, sulle tracce di qualcosa che è stato perso: approdata a quel momento, per la prima volta ho sentito di poter finalmente ritrovare la carne e quella corporeità a lungo negata. Questa “invenzione” è diventata poi un romanzo: Giulio Perrone Editore lo ha letto – grazie alla mediazione di Nadia Terranova, mia prima lettrice assieme a Fiona Sansone che ne ha firmato la postfazione –, lo ha amato e ha scelto di pubblicarlo. Claudio Longhi, a sua volta, lo ha letto e amato… così eccoci in scena.

Pensavi già al teatro, quando hai scritto il tuo romanzo?

Quando ho iniziato a scrivere, pensavo a un monologo per la mia voce, anche se a volte me ne dimenticavo, dal momento che Carne blu è uno strano oggetto illustrato, un ibrido, fra teatro, narrativa, fiaba nera… Poi, grazie al CSS, al Teatro India e al Piccolo, il racconto ha preso la direzione di uno spettacolo. In realtà, per me, la parola, quando la scrivo, è sempre da dire: rileggo ad alta voce, in qualche modo immagino il racconto nel flusso della mia voce.

Parli spesso di “fiaba nera”. Vuoi esplicitare meglio questo concetto?

Da molto tempo lavoro sulla fiaba: il mio ultimo lavoro come regista, Ivan e i cani, di Hattie Naylor, è ascrivibile a questo genere e anche per questo l’importanza della condivisione di questo viaggio con Fiona Sansone, esperta di didattica e teatro per l’infanzia. Sono una grande appassionata di fiabe, da sempre, per quello che nascondono e per quanto sono capaci di rivelare. Mi interessa molto il sistema narrativo su cui le fiabe si fondano, ma soprattutto mi incuriosisce il modo in cui il pubblico adulto le recepisce. Ho la sensazione che, quando ci poniamo in ascolto di qualcuno che ci racconta una fiaba, tutti, istintivamente, apriamo dei canali di comunicazione che altrimenti lasceremmo ben chiusi: in qualche modo, diventiamo più vulnerabili. Penso che l’obiettivo dello spettacolo sia accompagnare lo spettatore nell’esplorazione di quella vulnerabilità, per poi tirare fuori il coltello e provare a mostrare la ferita…

Carne blu è organizzato in tre atti che sembrano quasi tre singoli spettacoli. Cosa li unisce e cosa li differenzia?

In realtà non parlerei di tre spettacoli differenti, ma delle parti di un unico spettacolo che muta continuamente. Con Paola Villani, la straordinaria scenografa con cui ho collaborato per questo lavoro, ho pensato a una scena in eterno movimento, in dialogo col racconto di un corpo mutaforme, quello di Orlando, erede del personaggio di Virginia Woolf. Se corpo e spazio sono in un flusso di perenne cambiamento, anche il suono deve essere in divenire, campionato dalla scena, ogni sera: lo spettacolo, nel suo complesso, è un corpo vivo. Non a caso sono partita, sia nel romanzo, sia nella messa in scena, dalla frase di Paul Valéry «non c’è niente di più profondo della pelle»: i tre quadri sono una discesa in verticale, dentro un corpo, a partire dalla pelle, la prima parte, attraversando la carne, il secondo atto, fino alla terza, che ho battezzato “l’infinito bianco delle ossa”. Sono quadri diversi, perché ci troviamo, di volta in volta, in punti diversi di questo vero e proprio carotaggio dell’anima e del corpo. Anche il costume, come la scena, partecipa del medesimo progetto sul corpo in mutamento e movimento: a Simona D’Amico, la costumista, ho chiesto un lavoro non tanto sul tessuto, quanto, appunto, sulla mia pelle. Nella prima parte, dal mio corpo si staccano frammenti, brandelli di pelle blu che si mischiano ai granelli della sabbia di scena: sono pezzi di carne e di memoria, perché questo spettacolo rimanda anche al rapporto costituivo, e nello stesso tempo distruttivo e ossessivo, tra noi e il ricordo; ci parla dell’importanza di abbandonare, di lasciar andare le cose. Nel secondo atto, il corpo è interamente protagonista, come organismo nudo, a pezzi, che devono essere ricomposti, nel tentativo disperato – e anche tenero – di provare a rimettere insieme organi che non riescono più a stare nella posizione in cui si trovavano e sono, adesso, in un ordine che non può funzionare. Nell’ultima parte, incontriamo una creatura nuova, cui le ossa hanno bucato la pancia, dando origine a una nuova biologia, in qualche modo post umana.

Accennavi a un lavoro particolarmente accurato sul suono. Ci parli più approfonditamente di questo, ma anche del ruolo delle luci e delle proiezioni?

Mentre rileggevo Carne blu, mi rendevo conto che Orlando impiega sempre del tempo a mettere a fuoco le cose, ma quando sente, cioè quando sfrutta il senso dell’udito, percepisce tutto in maniera molto nitida. È il mio modo di approcciarmi al mondo: sono fortemente miope e credo che sia una caratteristica imprescindibile del mio modo di essere artista. Quando, con G.u.p Alcaro, abbiamo iniziato a lavorare sul testo, ci è apparso chiaro che si trattava di una grande partitura sonora.

Più che di un monologo, nel senso convenzionale del termine, parlerei infatti di uno “spettacolo per voce sola”, che animiamo campionando, attraverso i microfoni, i suoni che si generano intorno a me, in continuo dialogo tra la scena e il mio corpo, a sua volta parte di un grande organismo che si muove. Fondamentale è anche il ruolo giocato dalla luce: con Luigi Biondi, abbiamo lavorato dentro i confini di quel concetto di fiaba nera di cui parlavamo prima. Uno dei tanti riferimenti di questo testo, difatti, è Peter Pan: il rapporto fra il bambino e la sua ombra, che si scuce e se ne va, e che Peter fatica a ricatturare, era una delle suggestioni che ho dato a Luigi. Così, nella prima parte, abbiamo qualcosa che ha l’apparenza di un cielo che si muove, mentre in realtà il movimento deriva dalle ombre degli elementi di scenografia sollevatisi e incombenti; nella seconda parte, la luce trapela solo da spiragli; nella terza, l’ombra è proiettata dall’altalena, ed è l’ombra di un’assenza. In sintesi, il rapporto tra luce e ombra è un elemento fondamentale della drammaturgia del testo. Non meno prezioso è stato il lavoro del visual designer, Massimo Racozzi, per il video che apre la prima parte dello spettacolo e la accompagna per intero, facendo da specchio alla scena. È abitato da una creatura “altra”, ma dello stesso colore del bambino protagonista, una balena dagli infiniti riferimenti: chiunque abbia letto Moby Dick sa di quali valenze sia carica l’immagine di questo animale. Per me rappresentava anche un elemento proveniente dai bestiari medievali, che abitano il testo in molti modi, in una compresenza dei tre regni, animale, vegetale, minerale.

Ti sei diplomata, qui, alla Scuola di Teatro, con Luca Ronconi che ti ha diretta; hai poi intrapreso un tuo percorso, tornando allo Studio, la scorsa stagione, da protagonista di Hamlet, produzione del Piccolo diretta da Antonio Latella. Oggi sei autrice, regista e protagonista nuovamente di uno spettacolo prodotto dal Piccolo, di cui sei nel frattempo diventata artista associata. Che percorso hai in mente per i prossimi anni?


L’invito di Claudio Longhi a diventare artista associata è stato un enorme onore: sono stata molto felice di tornare, perché sento di avere qui le mie radici artistiche, anche se poi sono andata altrove. In verità, non so mai quale sia e quale sarà il mio cammino: lo scopro mentre sono in viaggio. Anche rispetto a Carne blu, per me è stato importante il percorso, il fatto di posizionarmi in un luogo vulnerabile. Ecco, questo sicuramente sarà uno degli obiettivi del triennio: continuare a portare avanti la mia riflessione sull’esposizione – intendo dire sul mettersi a rischio – e sulla contaminazione dei linguaggi. La mia poetica, se così possiamo chiamarla, in quanto regista e drammaturga, è basata sull’ibridazione dei codici. Questo mio testo è una Wunderkammer, un luogo miracoloso e pericoloso allo stesso tempo, dove esplorare il confine fra possibilità e impossibilità e perdercisi dentro, permettendo all’errore di entrare, di rischiarare lo spazio e dare nuova forza al corpo, che è la vocazione principale del mio teatro.





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